Nei primi anni Cinquanta l'avanguardia era generalmente ritenuta una faccenda remota, ormai superata: alcuni letterati, artisti e musicisti si accorsero che la Tradizione moderna era segnata dalle avanguardie e, come tutte le tradizioni, anche questa andava rivisitata. Fenomeno dalle molte facce, la neoavanguardia fu anzitutto una rivisitazione critica della modernità, un ripercorrerla senza pregiudizi e con molta passione di capire. La modernità si mostrava già declinante, e le esperienze dell'arte e della letteratura d'avanguardia, anziché superate, sembravano le più vitali e promettenti.
Dietro al Gruppo 63 c'era un movimento spontaneo suscitato da una vivace insofferenza per lo stato allora dominante delle cose letterarie. Mentre l'Italia si andava trasformando da paese agricolo a paese industriale, i suoi scrittori facevano una grande fatica a entrare nella modernità.
Primo embrione di un disegno di rinnovamento può essere individuato in Autonomia ed eteronomia dell'arte di Luciano Anceschi, pubblicato nel 1936: l'autore individua la ricca fenomenologia delle poetiche artistiche e letterarie, la loro complessità.
Da questo primo testo, vent'anni dopo nasce il Verri, osservatorio critico e laboratorio di autori che ben presto sarebbero diventati noti. Centrale di idee, esplorazioni e 'umori', la rivista favorì in Italia la rinascita dell'avanguardia, ne sostenne lo slancio e l'allevò nelle sue pagine.
Nel 1961 uscì nelle edizioni della rivista l'antologia "I novissimi" (rieditato nel 1965 da Einaudi), con una introduzione di Alfredo Giuliani.
Intorno al Verri e sotto la propulsione dei Novissimi crebbe un movimento di stimoli e consonanze fra diversi autori.
Fu Luigi Nono che suggerì a questi la formula impiegata dagli scrittori tedeschi per gli incontri annuali del Gruppo 47 (Gunther Grass, Ingeborg Bachmann, Peter Handke e altri): un seminario annuale in cui gli scrittori confrontavano i loro lavori in corso, leggendoli e criticandoli reciprocamente, non per riconoscersi su orientamenti e poetiche comuni, ma per rifondare in tempi brevi la loro letteratura. Pur in una situazione storica diversa, le intenzioni erano abbastanza simili.
Questa situazione di ricerca, idee, e fervori portarono quasi naturalmente alla nascita del Gruppo 63: i fondatori volevano portare allo scoperto una sfida che fino a quel momento era soltanto implicita nei loro primi libri, negli articoli del Verri (edito da Giangiacomo Feltrinelli) e nelle loro perpetue discussioni, spesso scambiate per via epistolare.
A questo punto serviva un luogo, ove ritrovarsi in seduta plenaria, per litigare proficuamente. Prima occasione fu offerta nel 1963 da Francesco Agnello, che guidava la Settimana della Nuova Musica di Palermo, prestigiosa manifestazione dei giovani compositori d'avanguardia: il programma comprendeva i nomi di Lieti, Evangelisti, Donatoni, Nono, Berio, Bussotti, Kagel... Invitati a partecipare in qualità di scrittori che seguivano un itinerario di rinnovamento parallelo a quello dei musicisti, oltre alle loro reciproche letture di lavori in corso (a porte chiuse) organizzarono un mulinello di undici atti unici, messi in scena alla Sala Scarlatti del Conservatorio, e parteciparono ad un movimentato ciclo di conferenze a più voci su teatro, teatro musicale, musica, pittura, poesia, narrativa.
L'unità del gruppo 63 si stava realizzando attraverso due assunzioni di metodo: ogni autore sentiva necessario controllare la sua ricerca sottoponendola alle reazioni altrui e la collaborazione si manifestava come assenza di pietà e di indulgenza. Dopo la settimana di Palermo il Gruppo 63 esisteva.
Sindaci, Assessori alla Cultura e Aziende di turismo diedero la loro disponibilità ad ospitare le riunioni annuali dei componenti.
Nel 1964 fu la volta di Reggio Emilia, in cui crebbero sia gli scontri che i proseliti. Nel 1965 di nuovo Palermo, in cui si discusse del romanzo. Nel 1966 a La Spezia e l'anno dopo Fano, ultima riunione ufficiale del Gruppo, in cui lo spazio maggiore venne riservato agli esordienti.
Nacque il mensile Quindici che raggiunse rapidamente una grande diffusione, arrivando a tirare più di 300.000 copie. La sua crescente politicizzazione esasperò contraddizioni e spaccature e ciò determinerà la sua chiusura nell'autunno del 1969, data che può essere considerata quella della fine della neoavanguardia come fenomeno organizzato.
La neoavanguardia italiana non si era mai posta come un'alternativa di potere, si era invece presentata come un'alternative di idee, di poetiche, di valutazioni. La sua occupazione di spazi fu doverosamente provvisoria.
Tutti i componenti del Gruppo 63 hanno continuato a scrivere...

(da Gruppo 63. L'antologia a cura di Nanni Balestrini e Alfredo Giuliani, ed.Testo&lmmagine 2002)



Il gruppo 63 quarant'anni dopo
diRenato Barilli, Fausto Curi, Niva Lorenzini

E' sembrato a molti che la ricorrenza dei quarant'anni dalla nascita del Gruppo 63 non dovesse passare sotto silenzio. Del resto, una preoccupazione del genere l'avevano già avvertita due dei protagonisti più importanti del Gruppo, Nanni Balestrini e Alfredo Giuliani, che infatti poco prima di questa scadenza hanno fatto uscire un'ampia antologia dei testi creativi, poesia, narrativa, teatro, stesi allora dai vari membri raccolti sotto quell'etichetta (Testo & Immagine, 2002). Il medesimo piccolo ma coraggioso editore si è assunto pure l'impegno di rimettere in circolazione l'antologia che, sul versante della critica e della teoria del Gruppo, avevano già provveduto a compilare, un quarto di secolo fa, Renato Barilli e Angelo Guglielmi. Cosicché un primo tangibile risultato è che a questo appuntamento si giungerà con un ampio corredo di testi su cui appoggiarsi. Tuttavia le due antologie, per varie ragioni, non sono dotate, come pure si usa fare al giorno d'oggi, di qualche CD capace di registrare il suono, pertanto un primo obiettivo è sembrato quello di ridate la voce agli scritti, di farli risuonare, per bocca degli autori attraverso una lettura diretta, o nel caso di chi nel frattempo è scomparso, affidando a qualche amico il compito di leggere al suo posto. E molta attenzione è stata dedicata pure alla scelta del luogo più adatto per conferire alle creazioni del Gruppo 63 questa sorta di opportuna. colonna sonora, individuandolo nella Sala Interaction del complesso teatrale dell' Arena del Sole, nella centralissima Via Indipendenza, una sede che è . tra i più vivaci punti d'incontro del popolo bolognese addetto alla cultura, i giovani studenti in prima fila. E appunto una fascia di audience giovanile, studentesca, colma di entusiasmi, è sembrata a tutti costituire il pubblico per eccellenza da raggiungere con quest'onda emanante dalla produzione testuale di allora, mostrando quanti e quali testi sono ancor oggi in grado di sfidare la prova più impegnativa, la lettura, e non solo quella silenziosa, libresca, ma la più piena e totale, orchestrata con tutta la possibile dotazione audiovisiva. Che poi la città prescelta sia Bologna, non deve certo meravigliare, considerando la centralità del capoluogo emiliano, per il carattere geografico che gli spetta in genere, ma che ha trovato pronta conferma anche nella geografia peculiare del Gruppo, col suo porsi quasi come punto di equilibrio tra Roma e Milano, e col fatto di aver ospitato nel suo Ateneo il padre spirituale del Gruppo stesso, Luciano Anceschi, e di ospitare tuttora nelle sue aule tanti membri del sodalizio, a cominciare da Umberto Eco, che per consenso unanime è stato chiamato a tenere il discorso di apertura dei lavori. La "dotta" Bologna, insomma, ha rinverdito questo suo titolo mettendolo a punto sui fermenti della ricerca letteraria e artistica più avanzata. Si aggiunga che tra gli Enti locali del territorio c'è una attiva e dinamica amministrazione della Provincia di cui attualmente è responsabile un giovane, efficiente Assessore alla Cultura, Marco Macciantelli, che oltretutto è stato tra gli ultimi allievi di Anceschi, e quindi è ben consapevole della portata del presente avvenimento, cui fornisce tutto l'appoggio possibile.
Precedenza, dunque, ai testi, che risuoneranno nella sala Interaction, secondo un ordine logico-cronologico di rito, cominciando cioè con i cinque poeti Novissimi, i quali per giudizio concorde sono stati il preambolo e al tempo stesso il nocciolo duro della neo avanguardia italiana, fecondati dall'insegnamento di Anceschi, pronti a raccogliere le migliori tradizioni della poesia italiana del primo Novecento, la linea montaliana degli oggetti, le sintesi audaci dei Futuristi, il funambolismo ai limiti del Dada di Palazzeschi, il tutto, però, riportato a quel clima di "apertura", per riprendere la parola-chiave lanciata da Eco, reso possibile, tra la fine degli anni '50 e gli inizi dei '60, dall'enorme svolta dovuta al boom industriale. Un'Italia che esce dai margini ristretti e provinciali della civiltà contadina e prende atto dell' inondazione di nuovi gerghi e possibilità lessicali. E i Novissimi, ciascuno a suo modo, si dispongono a registrare questa prorompente condizione linguistica e socio-culturale al tempo stesso, al seguito dei due punti fondamentali enunciati dal loro antologizzatore, Giuliani, nel nome cioè di una "riduzione dell'io", che significa anche una ripulsa dei compiaciuti narcisismi di cui si era beata la stagione postermetica. A questa cura dimagrante nei confronti dell"'egoismo" solipsistico si accompagnava, sempre secondo le parole di Giuliani, rubate a loro volta al massimo dei nostri poeti moderni, Leopardi, un "accrescimento di vitalità", una ramificazione di interessi, un' estensione capillare ad afferrare tanti dati di esperienza, pubblica e privata.
I Novissimi fecero prontamente scuola, innescando l'attività di un gruppo di poeti più giovani, che per un verso sentirono di dover "riscaldare", rendere più ebbro il collagismo verbale alla fiamma di un Surrealismo riveduto e corretto, o viceversa passare a sperimentare gli "effetti speciali" della performance, di una dizione animata, accompagnata con tutte le virtù del corpo. E nacque così l'esperienza della rivista "Malebolge", cui sarà dedicata la seconda delle giornate di lettura, venerdì 9 maggio, attraverso la testimonianza di chi è ancora attivo e sulla breccia come Giorgio Celli e Giulia Niccolai, mentre i mezzi così efficaci della tecnologia elettronica non renderanno difficile far riemergere le prestazioni eccezionali che allora seppero compiere gli scomparsi Adriano Spatola, Corrado Costa, Amelia Rosselli, Patrizia Vicinelli.
Viene poi la narrativa, ché senza dubbio fu di più faticoso approdo per gli esponenti del Gruppo, così come in genere questo aspetto della produzione letteraria ha sempre costituito un problema, per tutti gli scrittori italiani della modernità. E tuttavia i risultati ci furono, forti e intensi, come la prova della lettura permetterà di verificare in pieno. A cominciare da un fratello maggiore, che a dire il vero si forma da sé, in un' avida rapina di suggerimenti tratti da tutto il fronte della migliore narrativa europea, e al nostro interno, da una "linea Gadda", di cui si considera intrepido nipotino: Alberto Arbasino. E risuoneranno pure i sapienti, beffardi, ironici giochi di alto virtuosismo verbale prodotti, in un cantuccio di crucciosa riservatezza, da Giorgio Manganelli; o gli abili tecnicismi di cui seppe dar prova Furio Colombo. Accanto a loro, un personaggio legato anche ad altri gruppi, in un fertile andirivieni e incrocio di esperienze, come Francesco Leonetti. E due casi tra i più maturi e personalizzati di cui la narrativa del Gruppo si può vantare, Luigi Malerba e Gianni Celati. Riecheggerà anche la voce ad alta tensione morale e sperimentale che dal luogo più remoto del nostro Sud fecero giungere allora i membri della Scuola di Palermo, Roberto Di Marco, Michele Perriera, Gaetano Testa.
Anche così, in una polifonia numerosa e varia, si dovrà comunque lamentare una certa riduzione di presenze, a confronto col panorama più ricco e animato fornito dall'antologia Balestrini-Giuliani, ma comprensibili ragioni di tempo hanno costretto a una selezione ristretta, compensata però dal fatto che gli autori chiamati a leggere potranno proporre anche testi successivi agli anni del Gruppo 63, per dimostrare che le energie nate allora non si sono affatto spente in seguito.
Non poteva mancare il momento della riflessione e del dibattito critico, che certo è stato merito del Gruppo considerare non secondo alla creazione diretta delle opere, non però al punto di dargli un primato abnorme e nocivo, come dissero allora . i detrattori. E si passa quindi alla seconda antologia ideale del Gruppo, firmata da Barilli e Guglielmi, anch' essa chiamata a rianimarsi, a risuonare in un concerto di voci in diretta, però non attraverso la pedante lettura di testi critici, che ovviamente richiedono il silenzio della privacy. D'altra parte le forme consuete del convegno di studi sono da considerarsi inadeguate alla vivacità di questi contenuti, quindi si è pensato di ricorrere anche per il versante della critica a modalità animate e dirette, come per esempio la "tavola rotonda" che obbliga i partecipanti a dialogare, a misurarsi a stretto giro, a non compiacersi di prestazioni verbali solitarie. Ecco così la formula delle cinque tavole rotonde, la prima delle quali permetterà ai protagonisti di riassumere il senso di quanto vollero fare allora, e di chiedersi in che misura sono rimasti coerenti a quegli ideali o hanno ritenuto di doversene allontanare. Una seconda tavola rotonda allarga lo sguardo fuori dal giro ristretto della problematica letteraria. Infatti uno degli aspetti innovativi del Gruppo fu anche la consapevolezza che le "lettere" erano ormai divenute un territorio angusto, dato che alle porte premeva una travolgente realtà massmediale tale da investire tutti gli strumenti della ricerca, non solo la parola, ma anche e ancor più l'iconosfera, l'audiosfera, lo spettacolo. Arti visive, musica, teatro, non furono solo dei territori di affinità e di apparentamento, per i membri del Gruppo, bensì delle aree da investire e praticare, in una sostanziale cancellazione di confini tradizionali. E così la parola poetica dovette fondersi con le nuove sonorità della musica, o prendere una piena consistenza visiva, in dialogo con quanto facevano i compagni del Gruppo 70 guidati da Eugenio Miccini e Lamberto Pignotti, loro stessi aderenti al Gruppo 63. E la stesura di testi capaci di reggere la scena fu tra le preoccupazioni più vive di molti membri del Gruppo, da Luigi Gozzi a Giuliano Scabia. Tutti questi nomi, appunto, saranno coinvolti in una seconda tavola rotonda, assieme a degli interpreti di grande statura di quei sentieri della ricerca quali furono Vittorio Gregotti e Gillo Dorfles.
Una terza, finalmente, sottopone i prodotti del gruppo 63 al giudizio della storia, chiamando esponenti acuti e impegnati della storiografia letteraria italiana e internazionale a trarre un bilancio di quello che il Gruppo allora volle dire, e di quanto pesa ancora oggi.
Resta ancora da accennare al momento forse più vivo e importante dell'intera manifestazione, quello che si fa carico del tramando, dell'eredità. Che cosa hanno insegnato e trasmesso, i poeti, i narratori e critici del Gruppo alle nuove generazioni subentrate nel compito di produrre testi? Da qui il carattere assolutamente indispensabile delle due ultime tavole rotonde, dove i "vecchi e i giovani", per dirli col titolo pirandelliano, si misurano insieme per esaminare in quali termini si ponga questa partita di dare e avere, quali siano gli elementi di continuità, o invece di mutamento e di svolta.




Giulia Niccolai, "La giustizia poetica", in "l'Unità", 6 maggio 2003
Dato che quarant'anni corrispondono a due generazioni, potrei anche chiedermi per gioco come la nonna di ora vede la nipote di allora e viceversa, come la nipote di allora considera la nonna di ora. La nonna non può che iniziare il proprio discorso con la considerazione classica: ah, ma allora ero giovane! evidenziando cosi, innanzi tutto, quella giovanile sensazione, quell'esaltazione di star facendo la cosa più giusta con le persone più congeniali, con "Spirito di corpo", con felicità e facilità. Questo tipo di amicizia complice e solidale, inesauribile fonte di simpatia e allegria, la "nonna" sa di averla provata in quegli anni lontani per molti compagni di strada del Gruppo 63 da Germano Lombardi, conosciuto a Milano negli anni Cinquanta, a Furio Colombo con il quale aveva lavorato in qualità di fotografa a New York nel 1960, a Nanni Balestrini, Giorgio Manganelli, conosciuto al secondo convegno del Gruppo 63, ad Adriano Spatola con il quale convisse per undici anni, dal '68 al '79, prima a Roma, poi a Mulino di Bazzano, in una casa della famiglia di Corrado Costa}. Si è trattato di avere dei progetti in comune e di portarli avanti. Si è trattato di costruirsi man mano la propria identità di poeta; di sentirsi parte di un gruppo di artisti, di ritrovare rispecchiate negli altri la propria sensibilità e le proprie aspirazioni.
Ma questo stato di grazia che da giovani ci si illude che possa durare in eterno, nella realtà risulta invece effimero, si guasta o si volatili1ia perché le cose e i rapporti sono in continua evoluzione e perché le emozioni si complicano. Dopo il Sessantotto e la forte politicizzazione di una parte del Gruppo, dopo la chiusura di Quindici, Spatola e io decidemmo di lasciare Roma - dove in quél momento ci pareva impossibile portare avanti un discorso esclusivamente poetico - e trovammo rifugio in una casa di campagna del vecchio amico Corrado Costa. li fondammo la rivista ram ram e pubblicammo artigianalmente (con una piccola stampante Offset), e con l'aiuto di vari amici e del fratello di Adriano, Tiziano, più di un centinaio di plaquettes di giovani poeti. Malgrado il fatto che la nostra attività fosse esclusivamente letteraria, verso la metà degli anni Settanta fummo comunque perquisiti perché sospetti di essere tipografi clandestini delle Brigate rosse, e Spatola venne interrogato dal giudice Caselli.
Sarò sempre grata al Senatore Renzo Bonazzi, allora sindaco di Reggio Emilia, per l'aiuto e il sostegno che ci diede in quel difficile momento.
La consapevole scelta di Adriano, allora, di lavorare isolato e lontano da tutte le correnti letterarie e i gruppi di potere ha avuto, secondo me, delle conseguenze malinconiche per quanto riguarda il suo lavoro, e ciò è avvenuto anche nei confronti di Corrado Costa, perché dopo la loro morte prematura avvenuta nell'88 e nel '91, mi pare che essi siano stati ingiustamente dimenticati a livello nazionale. Cosi mi auguro che la giornata a loro dedicata a Bologna il 9 maggio assieme ad Amelia Rosselli e Patrizia Vicinelli - anch'esse scomparse negli anni Novanta - possa servire a sensibilizzare nuovamente il loro ricordo.
Da parte sua la nipote di allora, non poteva sospettare che la vita, la scelta di scrivere, di lavorare come poetessa potessero significare:un tale lento ma costante stillicidio di dolore e di impotenza. Per sua fortuna, una lunga serie di epifanie e di magiche coincidenze le permisero di intravedere con felice meraviglia, con un senso di compiutezza mai fino ad allora provato, la trama di un disegno superiore che riusciva a riscattarla dal nichilismo e dalla depressione, aprendole la via della fede nel Buddismo tibetano. Così, negli anni, la sofferenza che aveva smantellato le illusioni giovanili e la ricerca della felicità in qualcosa di esterno a sé (mete da raggiungere riconoscimenti desiderati, successo ecc.), le ha dato in compenso qualcosa di molto più solido e affidabile: l'accettazione della legge del karma, la legge del contrappasso, che in inglese ha il nome profetico e perfetto di poetic justice (giustizia poetica).


Angelo Guglielmi, "C'era quella visione del mondo anche nella mia tv", in "l'Unità", 8 maggio2003.
Perché questo incontro? Non rischia di trasformarsi in una adunata di reduci? Di quel che è accaduto quarant'anni fa devono parlare gli altri magari i giovani di oggi che possono dirci se quel che è capitato quarant'anni fa ha ancora (e quale) senso per loro. Noi abbiamo parlato allora e le nostre parole erano parole di giovani (avevamo dai venti ai trent'anni) che scoprivano a se stessi cosa pensare del mondo, dei libri che leggevamo e di quelli che volevamo scrivere. E allora? Me ne rimango a casa? No, è che mi accorgo che posso parlare del Gruppo '63 senza limitarmi a ripetere cose già dette (che producono il massimo della loro efficacia nel momento in cui sono detti per poi ridursi al ruolo di pure testimonianze) dunque mi accorgo che posso parlare del Gruppo '63 senza limitarmi (o restringendomi) a rievocare la valenza letteraria, indubbia e ormai acquisita, la decisione di rovesciare la cultura ideologica che allora prevaleva, di rifiutare la lettura per così dire cartesiana della realtà e di aprirla a una interpretazione più libera capace di fare i conti con le filosofie post-razionalistiche e il loro invito a rifiutare qualunque condizionamento prescrittivi e aprioristico conoscitivo. Tutto questo e molto d'altro lo avevamo già detto (e certo messo in pratica) e ormai la parte come si suoi dire della storia che ha il compito di dire quanto quell'esperienza è stata importante. Ma in attesa del responso non voglio sottrarmi a dire la mia.
Confesso che per me quell'esperienza se è stata importante (e non vi è dubbio che lo è stata mentre ancora sotto giudizio è la misura e il grado della sua efficacia oggi) 10 è stata anche perché - ed è qui che ho scoperto di poter partecipare all'incontro di Bologna senza sentirmi un reduce - ha significato oltre la valenza letteraria pur essenziale e decisiva. Quanto a me la partecipazione al Gruppo '63 (e l'attenzione militante che vi apportai) fu un'esperienza per cosi dire totale che influì sul complesso dei miei comportamenti sociali coinvolgendo i rapporti umani, i modi dell'amicizia, li rapporto con la politica, le pratiche lavorative non solo riguardo alla mia attività letteraria ma anche al mio impegno televisivo. Sì, anche riguardo al mio lavoro in televisione.
Di dove pensate che venga quell'antica Rai3 (che chiunque vuole indicare per nome continua a non poter fare a men di aggiungervi l'aggettivo mitica)?
Da dove quella sua tensione se non dall'ossessione della realtà che avevo già incontrato nei testi di Sanguineti o di Porta? Da dove l'intrecciò dei generi e le contaminazioni del discorso se non dalle indicazioni di Eco? Di dove la leggerezza e il piglio spavaldo se non dall'incontro con la scrittura di Manganelli o di Giuliani? Da dove la severità e la responsabilità etica se non dalla lettura dei testi di PagIiarani e Balestrini? Di dove l'ironia e lo spirito sarcastico se non dai suggerimenti di Malerba o Arbasino? Di dove quella costante ricerca del nuovo se non dall'animus speri- mentale, sempre inseguito, che aveva guidato il lavoro del Gruppo '63?
Beh, non vi è dubbio: io ho fatto televisione, pur rendendomi conto che si trattava di un diverso livello di comunicazione (ovviamente infinitamente più basso rispetto alla comunicazione letteraria) seguendo e attenendomi agii stessi convincimenti che mi guidavano nell'apprezzamento dei testi letterari e che ritenevo vincenti nel fare (allora a forse anche oggi) letteratura. Ma di tutto questo, e magari con più prudenza, parleremo a Bologna nella tavola rotonda del 10 (p. v.).


Maria Serena Palieri, Eravamo tanto odiati, in "l'Unità", 11 maggio 2003.
BOLOGNA Quarant'anni dopo, una parola li soccorre: post-moderno. La usa per primo Umberto Eco nella sua relazione introduttiva. È un termine che nel 1963 in Italia non aveva corso. Sta, applicando le classiche e comode categorie, a un'altra parola, post-industriale, come sovrastruttura sta a struttura. Ed era stato appena sei anni prima, nel 1957, che Daniel Bell aveva diagnosticato il cambiamento che, dagli Usa, si sarebbe irradiato nel resto dell'Occidente: dalla società industriale a quella post-industriale, appunto, con il sorpasso numerico dei colletti bianchi sulle tute blu. "Post-moderno" è la parola, passata ormai nell'uso comune culturale, che, ora, consente ai qui presenti di disegnare con inedita nettezza che cosa furono: cosa furono loro, artisti e intellettuali del Gruppo 63. Dicono di sé che furono i primi italiani consapevolmente post-moderni: quelli che si accorsero per primi che anche in Italia stava germogliando "la piena società di massa" e che questo richiedeva strumenti creativi nuovi (Fausto Curi); che "stava morendo la cultura rural-contadina e si entrava in un mondo iperindustriale, tecnologico, e nell'età atomica" e che di ciò prendevano atto "senza nessuna nostalgia" (Edoardo Sanguineti); che furono, a causa dell'atomica, "la prima generazione senza certezza del futuro" (Elio Pagliarani); che segnarono l'inizio di un'epoca nuova rispetto alla modernità "nata con Rimbaud e finita col secondo :dopo-guerra" (Nanni Balestrini); che furono avanguardia perché convinti "che le tecniche, in arte, siano decisive" (Renato Barilli). E che, e questa era la premessa, nascevano sulle ceneri del neorealismo, del patetico e del sublime, e sulla "riduzione dell'Io", sancite dalla raccolta poetica I Novissimi che, due anni prima, nel 1961, aveva curato Alfredo Giuliani, raccogliendo versi propri e di altri quattro poeti giovani, Pagliarani, Sanguineti, Balestrini e Antonio Porta, per i tipi della Biblioteca del Verri diretta da Luciano Anceschi. Per tutto questo furono n per n ostracizzati (da diversi conformismi) e vezzeggiati (da pochi). Alcuni apprezzavano Moravia, altri meno, alcuni rivedono l'epiteto, "Liala", che trauma rizzò all'epoca Bassani. Ma fossero e restino marxisti (Sanguineti) o fossero e resti no seguaci di McLuhan (Barilli), sono d'accordo sul nemico su cui, allora, avevano tutti voglia di sparare a cannonate: l'idealismo crociano e, ciò che in senso politico era più contiguo a molti di loro, la vulgata idealista di Gramsci che correva nel Pci, insieme con il neorealismo e il "contenutismo".
Una volta chiusa l'esperienza, il loro Gruppo 63 sarebbe rimasto annidato nella storia culturale italiana "come mito o come spauracchio" (Balestrini). Fino ad adesso quando loro stessi decidono che il mito, lo scheletro, va tirato fuori dall'armadio.
Perchè quello che è in corso a Bologna, nell'anfiteatro al chiuso dell'Arena del Sole, da giovedì a questa mattina è un confronto sui generis: i quarant'anni del Gruppo 63 (ma fu tra il 3 e 1'8 ottobre di quell'anno che all'hotel Zagarella, a Solanto, vicino Palermo, ebbe luogo il primo incontro) sono stati colti, dai protagonisti di allora, come occasione per una messa a punto storiografica. Come non capita mai, effettuata dai neoavanguardisti di allora nei panni di esegeti di se stessi (con qualche assenza, Achille Bonito Oliva come Furio Colombo). D'altronde, i nomi citati e altri presenti, Gillo Dorfles e Alberto Arbasino, poniamo, non costituiscono un gotha, a oggi dominante,dell'estetica, della semiologia, della critica letteraria e d'arte?
Ed Eco sottolinea la diversità fondamentale che segnava, fin dalle origini, il Gruppo rispetto alle avanguardie storiche di inizio Novecento: loro non erano bohémien, ma erano già dentro 1'establishment culturale, case editrici, radio e televisione, e puntavano a una "rivoluzione da dentro",
L'iniziativa, promossa dalla Provincia di Bologna e curata da Renato Barilli, Niva Lorenzini e Fausto Curi, è studiata in modo da non lasciar filtrare un alito di nostalgia (Umberto Eco, questo sentimento, invita a riservarlo strettamente ai morti: Anceschi, CereSa, Porta, Manganelli, Tadini, Spatola, Scialoja, Novelli, Vicinelli, Ripellino, Barbato, Feltrinelli, Filippini, Lombardi, Vivaldi...), La relazione introduttiva di Eco, giovedì, contestualizza la nascita del Gruppo nell'Italia di quegli anni: un'Italia dove nel '56 Schoenberg era stato fischiato alla Scala e dove Passaggio, opera di Luciano Berio su testo di Edoardo Sanguineti, nel '62 era stata accolta usando il grido "centrosinistra" come una contumelia, ma dove erano finalmente arrivati Brecht, Pound, Joyce, e i formalisti russi e il New Criticism. Poi gli artisti riprendono in mano gli antichi strumenti: come fecero dal '63 al '67, i cinque anni in cui il Gruppo 63 visse ed ebbero corso i loro appuntamenti (dopo Palermo, Reggio Emilia, di nuovo Palermo, La Spezia e Fano) leggono i propri testi di allora, e qualcuno legge quelli di chi non c'è più. Così si riascoltano le sonorità, oltreché di Giuliani, Pagliarani, Sanguineti, Balestrini, Porta, di Giulia Niccolai, Amelia Rosselli, Patrizia Vicinelli, Giorgio Celli, Corrado Costa, Adriano Spatola, e di Francesco Leonetti, Roberto Di Marco, Michele Perriera, Gaetano Testa, Arbasino, Manganelli, Luigi Malerba, Gianni Celati. Come leggono? Da autentico performer Pagliarani, con diligentissima lunaticità Sanguineti, da artigiana dell'ironia Giulia Niccolai... Divertendosi, perché anche questa -la "superficialità" - era per i postmoderni del '63 una parola d'ordine.
Dopodiché - dicevamo che la regia è sapiente - parlano loro di se stessi. Poi con Giovanni Anceschi (figlio ed erede del fondatore del Verri), Luigi Gozzi, Vittorio Gregotti, Giuliano Scabia, Lamberto Pignotti, allargano lo sguardo alla Contaminazione con gli altri linguaggi, architettura come teatro. Poi si sotto pongono allo sguardo di quanti per i qua- li, in contemporanea e nei decenni successivi, sono stati oggetto di studio, Filippo Bettini come Enzo Golino, Francesco Muzzioli come Walter Pedullà e Jacqueline Risset. E per finire (oggi) si aprono al confronto con i poeti, i narratori e i critici più giovani, da Silvia Ballestra a Lello Voce. A quanti, tra altri, si sono voluti battezzare Gruppo '93, ma rivendicano d'essere completamente "nuovi". Novissimi? Se del sangue correrà, saranno i figli a uccidere i padri o sarà Crono - il Gotha - che mangerà i suoi figli?


Beppe Sebaste, "La politica dell'Avanguardia", in "l'Unità" 12/13 maggio 2003.
Qualcuno ricorderà quella geniale rubrica del settimanale Cuore intitolata (chi se ne frega". Raccoglieva frasi scelte qua e là dall'universo delle parole pubbliche, quelle del libri e dei giornali. L'aspetto tremendo di essa è che nessuna parola o incipit può venire risparmiata da quella spada di Damocle, ricatto e minaccia: "echi se ne frega". Non era quindi solo un blob verbale, anche se del blob televisivo condivide la riduzione del mondo in immagini del mondo (riduzione del linguaggio a scampoli del linguaggio dei giornali, alienato per antonomasia), ma un meccanismo di (auto)sabotaggio: tutto il dicibile è insignificante, e in questo equivalente. Considerazione in sé ammissibile, e anzi eticamente giusta, se serve a richiamare la responsabilità per l'altro, la prossimità del prossimo, insita in ogni retorica e atto linguistico (poiché la natUra del linguaggio è dialogica). Perversa e distruttiva se invece fa spettacolo dell'autoreferenzialità delle parole, delle loro "tecniche", del loro esistere o sussistere in un circolo vizioso e autosufficiente.
La consapevolezza del linguaggio - del suo potere alienante più o meno occulto, o viceversa della sua potenza poetica, spesso congelata dall'uso - è senz'altro uno dei caratteri più significativi dell'avanguardia letteraria e culturale sorta in Italia intorno al Gruppo 63. In Francia, Germania, e soprattutto in Austria (il gruppo di H. C. Artmann, dalle cui tarde fila uscirono tra l'altro le poesie wittgensteiniane e gli Insulti al pubblico di Peter Handke), vi furono movimenti analoghi, e negli Stati Uniti i poeti agitavano la società già da molto tempo. Ma se le avanguardie poetiche, soprattutto in Italia, riguardarono l'analisi e la consapevolezza del linguaggio, del suo aspetto materiale, fonetico e grafico, sonoro e concreto, come si diceva - proseguendo in fondo il progetto della Pop Art, e a traino forse dello strutturalismo, poi della "grammatologia" di Derrida - in America le cosiddette avanguardie non facevano distinzioni tra stile verbale, stile estetico, stile di vita; e le loro azioni, le loro "politiche", si assunsero la responsabilità di avere ispirato un vasto movimento morale, spirituale e politico ("il messaggio - scriveva Allen Ginsberg - è allargare l'area della coscienza"}. Poco di tutto questo in Italia, con significative eccezioni che non a caso contraddicono il dogma della "riduzione dell'io": Giulia Niccolai e la sua compassionevole poetic justice (si veda il suo bellissimo pezzo sopra riportato); Patrizia Vicinelli, nella cui vita stroncata alla fine degli anni '80 sperimentò una pluralità di esperienze di rivolta, e diede vita alla prima esperienza teatrale in un carcere. Ma la domanda è: che cosa resta oggi della sperimentazione linguistica del Gruppo 63, a parte certi programmi televisivi (il Blob inventato da Angelo Guglielmi)? Quanto della sua spinta propulsiva è oggi utilizzabile in chiave di resistenza culturale, posto che non sia, invece, omogenea ai linguaggi dominanti?
Dell'autoesegetico convegno del Gruppo 63 svoltosi nei giorni scorsi a Bologna resta un'insoddisfazione: come se il Gruppo 63, peraltro così eterogeneo, non fosse passibile di giudizio critico. Come se l'auto-commemorazione avesse mancato l'occasione di approfondire, storicamente e filosoficamente, l'unico movimento letterario di "avanguardia" della seconda metà del Novecento. Già questa definizione è un paradosso interessante, che mette in relazione letteratura (d'avanguardia) e marketing: il Gruppo 63 infatti è il primo fenomeno culturale che abbia confezionato per la "cultura di massa" di cui fu alfiere e portavoce un prodotto che per sua natura dovrebbe sottrarsi all'orizzonte di attesa del pubblico di massai e non importa che Inge Feltrinelli abbia osservato che i libri del Gruppo 63 vendessero poco, conta la duratura promozione e il successo di coloro che, ha raccontato Umberto Eco, erano già allora tutt' altro che bohémien, ma ben inseriti nell' establishment culturale fatto di case editrici, radi, televisione. Ma il paradosso è apparente, perché il prodotto principale del Gruppo 63 nel suo insieme non fu la "poesia" (per quanto straordinariamente importanti siano alcuni dei poeti riconducibili al gruppo, da Corrado Costa a Giulia Niccolai, da Adriano Spatola a Patrizia Vicinelli, passando per I Novissimi del '61 (Giuliani, Balestrini, Pagliarani, Sanguineti e Porta). Fu un nuovo, disincantato rapporto tra letteratura e mass-media, arti e imprenditorialità, università e industria editoriale. E questo rapporto si può e forse si deve criticare.
Ma ascoltando e leggendo le cronache del convegno di Bologna, l'impressione è che non si sia andati oltre il riepilogo di dati già noti: la polemica col neorealismo e col sentimentalismo, e più in generale col famigerato asse storiografico della letteratura nazional-popolare che, da Manzoni a Grarnsci, via De Sanctis e Croce, emarginava ogni vivacità decentrata della letteratura; o la sottolineatura del carattere di massa (appunto) della società, che avviò una professionalizzazione accademica della sua cultura: "Liala", l'epiteto con cui fu liquidato Cassola, col senno di poi suona come un complimento, se è vero che fu il Gruppo 63 a sdoganare la para-letteratura di consumo, ponendola alla base di certa "tuttologia" e di molti studi semiotici. A parte questo, dicevo, al di là dei cliché che fanno la vulgata del Gruppo 63, è mancata un'analisi della sua eredità culturale e ideale, della sua responsabilità, del suo rapporto con l'oggi e la società, della politica e della politica culturale che ci ha eventualmente trasmesso. Manca perfino un'analisi del senso profondo dell'altra (violentissima) polemica che il Gruppo 63 ebbe con l'anticapitalismo nostalgico di Pier Paolo Pasolini.
Un'ultima osservazione. fu tanti, a Bologna, si sono detti anticipatori del post-moderno. Che cosa significa? La condizione post-moderna descrive l'orizzontalità a-storica delle merci nel mondo globalizzato. Sarebbe facile mostrare come sia collegata all'ideologia della flessibilità, del successo, dell'efficienza, delrazienda1ismo, e in generale del deficit di democrazia e del surplus di alienazione dei diritti che incombe sul pianeta, e di cui conosciamo il volto in Italia. Ma il punto di partenza è, come sempre, il linguaggio, il suo uso di massa, le manipolazioni televisive, l'ottundimento mediatico. Da anni sottoponiamo i politici a un fuoco di fila sulle loro carenze culturali, dunque sulle loro responsabilità, come quella di avere sottovalutato le televisioni. Ma è una vecchia storia, e ricordo le ironie e le proteste (che condividevo con gli intellettuali dell'ex Gruppo 63) di fronte alla candidatura di Alberto Moravia nelle liste del Pci. I tempi sono molto cambiati. Forse sarebbe ora di estendere le responsabilità anche agli intellettuali che hanno lavorato e forse modellato i linguaggi, come quelli del Gruppo 63. Essi hanno vinto, non c'è dubbio. Non possono essere indifferenti o immuni, oggi che viviamo nel più esteso e più soffocante dei blob.

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