Negli anni Ottanta, il dibattito sulla poesia è ripreso utilizzando piuttosto l’idea di una "ricerca" poetica. La nozione di "ricerca", con il suo riferimento all’ipotesi e ad un percorso ragionato e consapevole, veniva a contrastare le correnti di ritorno della poesia come empito sentimentale o come pienezza mistica della "casa dell’essere".
Il dibattito fu riaperto nel 1984, dal convegno della rivista "Alfabeta" su "Il senso della letteratura" (Francesco Leonetti, che ne fu promotore, riassunse i risultati in termini di "tendenze della ricerca". Proposte mirate vennero dalle "Tesi di Lecce" (scritto a più voci, proposto nel 1987 e in cui appaiono oltre a scrittori già del Gruppo 63 come Giuliani, Leonetti, Sanguineti, anche Filippo Bettini, Roberto Di Marco, Romano Luperini, Mario Lunetta e i più giovani Pietro Cataldi, Tommaso Ottonieri e Umberto Lacatena).
Di lì a poco venne varato il Gruppo ’93 (sigla imitata rovesciando il 6 del precedente ’63; la cifra doveva corrispondere all’anno di chiusura del gruppo — e così è stato), che costituiva un raccordo con gli autori della nuova generazione (in particolare i gruppi KB e Baldus, dove militavano anche Lello Voce, Biagio Cepollaro e Mariano Baino).

La ripresa della "tendenza" trovò espressione più ampia nell'antologia della "Terza Ondata", che Bettini e Di Marco pubblicarono nel 1993, con l'intento di tracciare una mappa della sperimentazione diffusa e delle sue diverse linee e manifestazioni.
In questa proposta la ricerca si univa anche alle istanze antagoniste del valore politico della poesia.
Il dibattito è tuttora aperto.

Leggi un documento originale sul 1° incontro del Gruppo 93


Università degli Studi Siena
Dipartimento di filologia e critica della letteratura 

Il Gruppo '93 e le tendenze attuali della poesia e della narrativa
Convegno di studio con letture e analisi di testi.

Partecipano: Renato Barilli, Remo Ceserani, Guido Guglielmi, Niva Lorenzini, Roberto Di Marco, Francesco Leonetti, Romano Luperini, Franco Petroni, Pietro Cataldi, Gianni Sassi, Anna Grazia D'Oria, Piero Manni, Benedetta Cascella, Mariano Baino, Giovanni Fontana, Marcello Frixione, Tommaso Ottonieri, Costanzo Ioni, Piero Cademartori, Roberto Bugliani, Biagio Cepollaro, Lello Voce, Umberto Lacatena, Marco Berisso, Paolo Gentiluomo, Giuseppe Caliceti.
Il Convegno si svolge nei giorni 28 e 29 febbraio alla Certosa di Pontignano (Siena). La giornata di venerdì sarà dedicata al dibattito teorico, quella di sabato alla lettura dei testi e al loro esame.


In "L'Immaginazione", n. 103, aprile-maggio 1993.

Romano Luperini
Appunti su una presunta Terza Ondata dell'Avanguardia

Francamente del libro Terza Ondata (a cura di F. Bettini e R. Di Marco, editore Synergon) trovo interessanti poche cose: la introduzione di Di Marco (che merita di essere seriamente discussa), la pubblicazione antologica di qualche autore nuovo e sperimentale del cosiddetto Gruppo 93 e dei suoi immediati dintorni (seppure con gravi e ingiustificate assenze), qualche commento ai testi.
Concordo con diversi punti della introduzione di Di Marco: 1) il giudizio storico sul Gruppo 63 (che mirò a "conquistarsi uno spazio di potere dentro il sistema letterario dato" e ne divenne quasi subito "parte costitutiva,'); 2) la definizione dell'attuale sistema letterario come impermeabile al nuovo, con la necessaria conseguenza che i movimenti nuovi devono viverne fuori (ai lati, direi io, ma è la stessa cosa) in , un rapporto di "distanza critica"; 3) la sottolineatura della distanza e della discontinuità fra il Gruppo 63 e le nuove tendenze, che pure ne ereditano lo sperimentalismo; 4) l'uso della categoria "situazione-postmodernità,,; 5) l'affermazione che il terreno specifico della rottura non è quello dei linguaggi, ma quello dei significati allegorici e dunque di una ridefinizione del rapporto con la realtà. Cose non dissimili ho sostenuto anch'io varie volte.
Il guaio è che tali articolazioni del discorso, che rendono vivace e incisiva la parte iniziale e centrale della introduzione, sono subordinate a un assunto dogmatico svolto deduttivamente e retoricamente nella parte conclusiva. Qui l'enfasi sostituisce l'analisi e il ragionamento. L'assunto è il seguente: esiste una "contraddizione fra arte in generale e modo di produzione capitalistico in generale"; ergo: l'avanguardia anzi: 1'"Avanguardia", con tanto di maiuscola) è l'espressione oggettiva di questa contraddizione, e oggi assume l'aspetto dei giovani scoperti dai curatori del libro. In quanto espressione di' un'oggettiva contraddizione, l'avanguardia d'altronde esisterebbe sempre, anche quando nessuno se ne accorge. Ora si incarnerebbe in una nuova tendenza che sarebbe -addirittura, addirittura!- una Terza Ondata (altre maiuscole), rispetto a quella primonovecentesca e a quella del Gruppo 63: "la Terza Ondata dell'Avanguardia" (siamo ridotti a questo: i terribili avanguardisti d'oggi tentano di spaventare i lettori con le maiuscole). E qui la sparata è grossa davvero. Perché gli espressionisti e anche Marinetti sapevano di essere una avanguardia, esattamente come lo sapevano Sanguineti o Giuliani negli anni sessanta, e non aspettavano certo che qualche critico lo dichiarasse al posto loro e per loro conto. Senza una coscienza soggettiva non si dà avanguardia (né in senso politico, né in senso letterario). La contraddizione oggettiva di cui Di Marco parla riguarda tutti, Fortini come Sanguineti, Conte come Siciliano. Allora anche Siciliano è un'avanguardia senza saperlo? Ora si dà il caso che quella che Di Marco chiama pomposamente Terza Ondata non ha, in genere, alcuna coscienza soggettiva il di essere avanguardia e anzi recalcitra non: poco di fronte a chi vuole appiopparle a ogni costo tale etichetta. Lo stesso Di Marco ammette che il movimento non ha "sufficiente teoria"; ma, poiché esso rappresenta allegoricamente la contraddizione di cui sopra, ciò gli basta a promuoverlo Terza Ondata, a vedere in un " gruppetto di ragazzi promettenti il programma di Rimbaud e di Majakovskij (Agli autori, imbracati come buoi e issati ai i vertici stellari della Terza Ondata, evidentemente spetta solo di stare lì dove li ha carrucolati e sistemati il loro critico, costretti, loro mali grado, a essere documenti ed espressioni di una oggettività che lui gli ha sistemato ben bene addosso, incurante delle loro proposte (si guarda bene, infatti, dall'analizzarne le poetiche) e delle loro proteste. Gli autori vengono reificati, sottoposti a un riduzionismo che è tipico di tutto il filone del marxismo plechanoviano, poi continuato e aggiornato nel meccanicismo scolastico dell'età staliniana e infine riemerso in Italia nel dogmatismo "marxista-leninista" di alcuni gruppetti postsessantotteschi. Riproporlo oggi può essere un atto di coraggio di cui occorre dare atto a Di Marco; ma ciò non può esimere dal sottolinearne l'improduttività teorica, l'inefficacia conoscitiva, l'insopportabile enfasi idealistica. Con questo metodo è facile trovare conferme alle proprie illusioni, ma non si va molto lontano; inoltre esso ha già fatto troppi danni in passato (anche all'interno dell'area di coloro che promuovono, come Di Marco e il sottoscritto, una concezione materialistica della letteratura) perché possa essere riproposto tranquillamente oggi.
Quanto al libro nel suo complesso, infastidisce la faziosità con cui è stata costruita l'antologia e che ne riduce drasticamente la rappresentatività. Che senso ha, quando un movimento può contare sì e no su sette-otto poeti di valore, ometterne ben quattro (Berisso, Gentiluomo, Cepollaro, Voce, che fra l'altro sono stati i promotori del Gruppo 93) senza alcuna giustificazione (non è tale l'impacciata Avvertenza che tenta di darne conto) e in realtà solo per beghe e ripicche personali? Piccinerie.
Infastidisce l'enorme apparato che avviluppa i testi. E tutto uno sferragliare di grossolane gru e di arrugginite catene, un pesante armeggiare di grosse tenaglie e di antiquate leve, per imprigionare, inquadrare, spiegare, spostare, incastrare, castrare, spostare, incasellare. I testi sono soffocati da un abbraccio mortale. Mentre paradossalmente mancano -e la cosa è tanto più grave in quanto in contraddizione con tutta la tradizione dell'avanguardia- le dichiarazioni di poetica e le prese di posizione teoriche degli autori. Ma si capisce: se fossero state pubblicate, nella maggior parte dei casi avrebbero clamorosamente contraddetto le introduzioni, le premesse, le avvertenze, gli allegati, i "cappelli" al testo, i commenti, i "documenti", le "notizie", le postfazioni, le postille che ingombrano il libro.
Infastidisce il settarismo spinto sino alla staliniana damnatio memoriae. Non solo si polemizza ipocritamente con gli interlocutori (come il sottoscritto) senza farne i nomi, ma si giunge a cancellarli dalla cronaca dei fatti. Piccinerie, senza dubbio.
Ma dispiace che vi sia coinvolta una persona seria come Roberto Di Marco, un vecchio militante, un caro amico.


In "L'Immaginazione", n. 105, agosto-settembre 1993. pp. 12-13.

Biagio Cepollaro
Tra poetiche e politica: una cultura critica da ricostruire

Leggendo l'intervento di Romano Luperini, La politica e le poetiche (L'immaginazione, 104) e rileggendo l'articolo polemico di Raboni relativo al volume sul convegno di Siena del "Gruppo '93", apparso sul Corriere della sera del 23 maggio 1993, mi preme fare alcune schematiche considerazioni, anche perché coinvolto direttamente o indirettamente nella questione. E indubbiamente vero che la poetica implica sempre un discorso culturale, un complesso di orientamenti non solo estetici, così come è vero che la poetica-manifesto, propria di ogni avanguardia, è meno significativa oggi della poetica che definisco a posteriori. Ritengo oggi la stessa nozione di avanguardia come improponibile e dissento da coloro che parlano di avanguardia ad ondate (ve ne sarebbe oggi una terza), valutando che al più si tratti del movimento ondulatorio di un liquido in una tazzina di caffè. Posso capire la diffidenza che i discorsi sulla poetica fanno sorgere: troppe ubriacature ideologiche, scientiste, troppe confusioni tra realtà testuali e intenti programmatici hanno nel passato, più o meno recente, mostrato di fallire, sia sul piano della critica letteraria sia su quello della politica culturale. Ma ciò rende ancora più urgenti le questioni poste sul tappeto da Luperini: la ricostruzione a posteriori del lavoro del poeta implica anche la definizione di una costellazione culturale che contribuisce a costituire la capacità di conoscenza e di senso della stessa poesia. Se si evitasse questo spessore che Musil chiamava la "conoscenza del poeta" non ci resterebbe che affidarci alle infinite, quanto misteriose, derive della scrittura, o più tradizionalmente e alla buona, a banalità del tipo: "la poesia è trasfigurazione", "la poesia non ammette repliche" etc. etc. come mi è capitato di ascoltare anche qualche tempo fa nel corso della rassegna "Mondo-poesia-mondogiovani", curata da Majorino e da me a Milano.
Quale potrebbe essere allora il ruolo del critico nel tempo in cui, come rilevato da più parti, la poesia è sempre più ai margini del sistema della comunicazione, o addirittura "postuma", come preferisce dire Ferroni?
Il critico, in fine dei conti, è un lettore. Il buon lettore si chiede anche quali implicazioni, quali possibili allusioni, quali orientamenti sono coinvolti in quel particolare modello di esperienza linguistica del mondo che è la poesia. Cosa vuoi dire, in questo senso, per fare solo un esempio, una scrittura come quella di Giuseppe Conte? Cosa possono implicare decisioni stilistiche di quel tipo? Quando un poeta canta i "galeoni volanti" e lo fa con quel dispositivo retorico, assegna implicitamente alla poesia una funzione che è quella di far sognare, sublimare, consolare. Del resto lo stesso poeta lo dichiara quando dice della poesia: "inaugurerà il ritmo della danza delle cose eguali all'uomo e dell'uomo eguale alle cose, nell'armonia ritrovata tra la parola e la forza di dono del sole" (in Il movimento della poesia italiana degli anni Settanta, a cura di T. Kemeny e Cesare Viviani, Bari, 1979, pago 109). Il passaggio dagli anni di Marx e Marcuse agli anni di Derrida e Lyotard o, nel caso della poesia a me vicina, la distanza dalla psicanalisi e dal marxismo francofortese per una rilettura di Bachtin, Virilio, Ong, rappresentano mutamenti di costellazione culturale in cui si muove, il critico non può ignorare, però, quanto di questa dimensione venga metabolizzato in scelte retoriche e stilistiche, quanto divenga, insomma, alla fine, proposta di poesia. E ciò indipendentemente dalla capacità versificatoria del poeta. La poetica non decide della riuscita di una poesia: vi sono poesie riuscite che sentiamo come poco illuminanti, poco significative, esercizi che estenuano un certo modulo che può essere, ad esempio, tanto montaliano, quanto sereniano o sanguinetiano.
La poetica a posteriori è sempre a contatto con i testi da cui origina. E ciò appare urgente oggi se è vero, come credo, che molti "contenuti critici" della neoavanguardia si siano esauriti, così come i luoghi comuni circa la poesia desiderante che ad essi reagì negli anni '70.
La rivendicazione di una "nuova soggettività" si è conclusa in un sostanziale dannunzianesimo o neoermetismo. La ricostituzione dell'aura poetica è stata funzionale a coprire una ben nota banalità: la fuga dei significanti, avanguardista o desiderante, ha contribuito a resuscitare l'immagine un po' bisunta del poeta, così come tradizionalmente per lo più i non-lettori di poesia intendono il poeta.
Quando Luperini si chiede perché un critico o un quotidiano "di sinistra" appoggiano poetiche le cui implicazioni culturali non sono di tipo "critico", credo siano possibili almeno due risposte: che il critico o il quotidiano non siano "di sinistra" o, più probabilmente, che la crisi riguarda proprio ciò che deve intendersi per la "cultura di sinistra". Prima ancora della definizione del rapporto tra poetica e politica, occorre ridefinire le caratteristi- che e le prospettive del lavoro intellettuale in quanto tale in una società telematica. La letteratura è solo un aspetto -marginale- del problema generale della cultura critica. Il dibattito sul post-moderno avrà avuto almeno un merito: di aver posto la questione della difficoltà della cultura "critica" ad esercitare la sua funzione. Il costume postmoderno ha approfondito e occultato la crisi tra cultura e politica, scegliendo come terreno rappresentativo proprio la dimensione estetica. Ed è anche per questo che è più difficile riallacciare i contatti con le cose. Ignorare ciò comporta forse i disastri di cui scrive e denuncia Luperini. Se Fortini aveva ragione a dire che con i "sabotaggi" linguistici non si fa la rivoluzione, non è per questo augurabile che la poesia contribuisca, nel suo piccolo, a fare restaurazioni...
D'altra parte, anche all'interno di quella contraddittoria esperienza che è stata siglata "Gruppo '93", oltre agli epigoni di Sanguineti, vi eran coloro che invece di forzare la retorica a strapparsi la maschera, ne rafforzavano i dispositivi con rjsultati leziosi che altrove ho definito di "arcadia metaletteraria".
Oggi il paesaggio postmoderno mostra segnali di indebolimento, il "totalitarismo retorico" non può più coprire del tutto la miseria culturale e politica che molti addetti al sistema della comunicazione hanno contribuito a celare, giocando anche al vecchio gioco dell'arte per l'arte o alla falsa contraddizione tra avanguardisti e tradizionalisti.
La distanza tra cultura e politica scopre un mondo dove al progredire delle nuove tecnologie della comunicazione, fa riscontro un sostanziale imbarbarimento del tessuto civile. Questa barbarie oggi è tutta visibile con le sue cancrene e i suoi fermenti. Ma anche con i suoi miti arcaicizzanti.
Sulle rovine del postmoderno c'è da ricostruire, ancor prima che una poetica, una cultura complessiva all'altezza di queste trasformazioni dai connottati antropologici. Un filo di tale tessuto, dall'incidenza quasi trascurabile, potrà forse comunque essere quel tipo particolare di conoscenza che è la "conoscenza del poeta".

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