In "L'Immaginazione", n. 102, febbraio-marzo 1993, pp.5-7.

Il Gruppo 63
Dal 3 all'a ottobre 1963 si tenne a Palermo un Convegno di letteratura che mise in discussione forme e problematiche dominanti nella cultura. Nacque allora il Gruppo 63 come modo di aggregazione di giovani intellettuali uniti dal rifiuto del contesto letterario esistente e dall'impegno sperimentale ad agire sulla logica del linguaggio. Sono passati trenta anni. Abbiamo parlato con alcuni dei protagonisti di allora.

Renato Barilli
Qual è stata la funzione storica del Gruppo 63?
I membri del Gruppo 63, quale che fosse il loro ruolo (produttori di testi, critici, teorici ecc.), hanno avuto una intuizione di fondo, forse non del tutto esplicita a livello di enunciati, che cioè l'Italia aveva ormai abbandonato la fase di una cultura contadina ed era entrata stabilmente nel modello delle società industriali avanzate. Da qui l'aspetto insostenibile, neo-aracadico, di quanti vagheggiavano ancora la sanità, appunto, di una società contadina, o criticavano una società industriale in cui il male sarebbe stato dalla parte dei "padroni del vapore", mentre il bene sarebbe ancora sopravvissuto nella capacità di operai, proletari in genere, di resistere, magari abbarbicati a quanto permaneva in loro di aderenza ai vecchi riti e miti delle culture della penuria e del radicamento nella natura. Da qui l'''apertura'' del soggetto, che doveva porsi alla pari col flusso di oggetti, materiali e linguistici, provenienti dal mondo della produzione, e adeguarsi anche ai ritmi celeri che quel mondo, e la connessa tecnologia, prevedevano. Diveniva insomma una specie di obbligo per tutti di porsi a quei nuovi livelli di esperienza, riconoscendoli necessari, inevitabili, e rinunciando così ad esercitare nei loro confronti le condanne paleo-umanistiche, anche se queste pretendevano di giustificarsi con qualche puntello di ideologie di sinistra (ma si trattava di un paleo-marxismo). Ne venivano le due caratteristiche che mi sono permesso di sostenere fino alla noia: la normalizzazione, cioè il fatto che il soggetto di questi esperimenti di neo-avanguardia è comune, democratico, uomo della folla; e che si deve abbassare, portarsi a un flusso di esperienze di base. Ciò corrisponde a quanto Giuliani ha definito "riduzione dell'io", e anche al carattere di attenzione oggettuale, che fu allora dominante (si pensi al da me tanto amato Robbe-Grillet).
Quale eredità il Gruppo 63 ha lasciato in questi trenta anni, che cosa è rimasto, in particolare, rispetto alla narrativa?
Questi due caratteri (normalizzazione e abbassamento, che poi corrispondono a uno degli aspetti di ciò che si sarebbe chiamato il postmoderno) valgono sia per la poesia che per la prosa, fatti i dovuti aggiustamenti; e sono anche caratteri che hanno dimostrato di reggere alla distanza, così da accompagnare le esperienze più recenti, rintracciabili sia nei "nuovi romanzieri" (Tabucchi, De Carlo, Busi, il compianto Tondelli), sia nei poeti del cosiddetto Gruppo 93.
Solo che si dà una curiosa divaricazione, nei modi in cui rispettivamente i narratori e i poeti riprendono queste caratteristiche di fondo già dominanti, appunto, nel panorama degli anni Sessanta. I poeti di oggi sembrano voler "accelerare", passando a svolgere quella che da tempo indico come prospettiva "intraverbale". Essi cioè rompono l'intangibilità dei vocaboli, sfruttando il flusso di "parole sotto le parole", come già diceva Jean Starobinski, riallacciandosi al Saussure. I poeti, insomma, "raddoppiano" di furore sperimentale rispetto ai Novissimi. Laddove i narratori ricordati sopra sembrano voler rallentare in modo da divenire più leggibili, rispetto agli sperimentatori di trent'anni fa, anche se mi sembrano continuare a reggere le categorie della normalizzazione e dell'abbassamento. Busi, che è il prodotto più riuscito, ha scritto addirittura Le persone normali, e certo l'attenzione per le vicende "basse" del corpo o del parlato è uno dei suoi temi ossessivi. Ricordo che, sempre trent'anni fa, cominciai ad avanzare anche un'ipotesi minoritaria e più sofisticata, che cioè narratori e poeti (più i primi che i secondi) a un certo momento capovolgessero il pendolo e si dessero a imitare, in modi parodistici e demistificanti, una narrativa di consumo, fondata sull'intreccio, su fatti forti e romanzeschi. Allora a suffragare una tale ipotesi c'era il solo Calvino, poi sarebbero venuti i successi di Eco. Ricorderei anche le esercitazioni di riscrittura, di letteratura al quadrato che si devono a Roberto Pazzi.

Alfredo Giuliani
Qual era la situazione della poesia al tempo dei Novissimi?
La grande tradizione dei "Lirici nuovi" si stava esaurendo. E quando dico "Lirici nuovi" mi riferisco, naturalmente, alla tempestiva sistemazione estetico-critica che ne aveva fatto Luciano Anceschi nell'omonima antologia durante la guerra. S'intende che quella tradizione godeva ancora di prestigio ed era ancora viva. Ma aveva raggiunto o stava raggiungendo cime, compiutezze di stile, valicate le quali non si sapeva da che parte andare. L'attesa tormentosa di una poesia nuova cominciò nell'immediato dopoguerra. Continuare, nonostante tutto, la strada dei "Lirici nuovi" non poteva condurre a nessun rinnovamento. I post-ermetici, come furono chiamati, avevano scelto per così dire una strategia di posizione. I neorealisti e i sociologizzanti non mi sembrava che rinnovassero il linguaggio e le forme (spesso saltavano indietro verso Pascoli e il crepuscolarismo). Bisogna riesaminare l'intera tradizione moderna, non solo italiana, per darsi un linguaggio più "reale". Occorreva un intenso lavoro estetico-critico. Bisognava riattraversare l'esperienza moderna, comprese le avanguardie, porsi problemi di metrica, di sintassi, di lingua comune intrecciata nel ritmo ai gerghi colti, di forme che mettessero lo stile in movimento. Ecco, mi sembra che a quel tempo (dall'inizio degli anni Cinquanta alla fine degli anni Sessanta) quei problemi se li posero principalmente i Novissimi e alcuni che vennero subito dopo.
Dico principalmente perché non voglio dimenticare Edoardo Cacciatore e Emilio Villa, due isolati, differentissimi l'uno dall'altro, anomali rispetto alla "situazione". Di Villa allora conoscevo pochissimo, testi scritti del tutto o prevalentemente in un francese distorto, forse "materico". Quanto a Cacciatore, fui probabilmente il primo ad accorgersi (o quanto meno a parlare) del poemetto La restituzione e del saggio poetico-filosofico L'identificazione intera. A modo suo, anche Cacciatore era "novissimo".
Quant'è rimasto dell'esperienza dei Novissimi nella poesia di oggi?
Dipende dai punti di vista, credo. In generale suppongo che le qualità formali della poesia, dopo i Novissimi, siano perseguite con maggiore energia. Credo che anche la propensione per la poesia pensante, la poesia giocosa e ironica, la mescidanza degli stili o (al contrario) per lo stile secco e povero, debbano qualche cosa alle nostre ricerche. Da un punto di vista più particolare, è probabile e forse certo che alcuni poeti di quella che ora è chiamata la terza ondata (ovvero del tramontante Gruppo 93) siano partiti dai Novissimi.
Un giudizio sulla rivista "Quindici".
È stata una bella impresa e avrebbe potuto continuare a lungo, magari con vari aggiustamenti. Ma fu sopraffatta dalla ventata di follia del Sessantotto (quella ventata travolse la mente di parecchi collaboratori). Mancarono lucidità critica e animo responsabile nel momento in cui avvenimenti troppo grandi e uomini troppo piccoli invasero le pagine della rivista.

Francesco Leonetti
Qual è stata la funzione storica del Gruppo 63?
Mi pare anzitutto necessario precisare che l'indicazione di Gruppo 63 va intesa certamente in un senso "frontista" e cioè di convergenza di più componenti della ricerca letteraria. Tenuto conto di ciò è certo che l'evento delle riunioni di giovani autori e critici negli anni '63 e successivi ha comportato una svolta radicale nell'attività intellettuale così come gli eventi degli anni '10 e successivi del 1900. Non si è formata una corrente propriamente di avanguardia in quegli anni perché erano presenti insieme più posizioni: quella materialistica rigorosa, quella propriamente semiologica, e l'influenza della fenomenologia; mentre e chiaro che una corrente di avanguardia domanda una più stretta validità comune sulle analisi e sui modelli cognitivi, teorici e percettivi. Nono- stante ciò gli eventi connessi alle riunioni di più gruppi negli anni '60 sono certo decisivi per l'espressione innovativa o "sperimentale" nella seconda metà del '900, e si connettono sia a momenti simili nell'arte, sia ad alcune scelte in sede epistemologica.
Quali furono i rapporti tra Anceschi e "11 Verri" e "Officina"?
È difficile fare la storia degli anni attorno al '60; esistono peraltro molti saggi in proposito. lo voglio precisare due soli punti: a) nell'ambito di "Officina" già prima abbiamo scelto di parlare di "sperimentalismo" in senso certo più largo e però connesso abbastanza strettamente all'espressionismo e al pensiero materialistico; b) è vero che vi è stata contraddizione in "Officina" verso l'attività del Gruppo 63; e io sono considerato "transfuga" nel grande bilancio di Segre-Martignoni intitolato Testi nella storia (1992), rappresentando a quella data piuttosto una scelta connessa alla ricerca artistica e inoltre condivisa già con Vittorini e "Il Menabò" (mentre altri del gruppo di "Officina" si riferivano piuttosto all'espressionismo di specie realista e non .a quello "astratto"); questo motivo e un certo rapporto di tradizione recente fra Anceschi e Sereni ha costituito una comprensione a tratti incerta verso "Officina", e mi pare verso i nuovi autori che certo provenivano più direttamente di noi dal magistero estetologico di Anceschi ma non ebbero purtroppo la sede del "Verri" come filo teorico utile e continuo per il loro lavoro inventivo e critico di quegli anni, che tuttavia serba in Anceschi e nel "Verri" la sua matrice.
A proposito di quesiti storici-critici, qual è stato il compito che successivamente la rivista "Che fare" si diede?
Abbiamo inteso insieme, Roberto Di Marco e io, di costituire inizialmente una scelta di "sinistra" nell'ambito delle ricerche riunite nel Gruppo 63; non abbiamo però avuto, pur con ogni stima reciproca, l'apporto di Edoardo Sanguineti, probabilmente anche perché è emersa subito una scelta politica intellettuale di nuova sinistra con valore determinante in tutto il lavoro della rivista. Va però detto anche che, oltre ad alcuni riferimenti all'avanguardia precedente e a movimenti simili di altri paesi, abbiamo portato avanti noi soli attraverso gli anni '70 nelle lotte politiche una linea di ricerca letteraria e artistica radicale sulla base del concetto di "decentramento" che abbiamo io e De Marco desunto da Pierre Macherey con un nostro proprio sviluppo di elaborazione.

Edoardo Sanguineti
Qual è stata la funzione storica del Gruppo 63?
Dimostrare che era praticabile un'idea di letteratura alternativa a quelle allora dominanti, riportando al centro le categorie di ricerca, di rischio, di avventura culturale. Come si disse subito, fu una nuova avanguardia, molto semplicemente.
Come si conciliavano nel Gruppo 63 le sue posizioni più radicali con quelle più moderate e riformiste degli altri?
Non c'era un problema di conciliazione: ci riunivamo per discutere, per confrontarci, per dibattere. Era importante, per noi, trovarci concordi, più che sopra le risposte, sopra le nuove domande che la situazione rendeva necessarie, in quella congiuntura. E sulle domande, nel complesso, ci intendevamo piuttosto bene.
Quali critiche faceva allora al resto del Gruppo e quali farebbe oggi?
Tutti criticavamo tutti, per fortuna. È impossibile riassumere le polemiche di allora, che erano sovente piuttosto complesse e che si sono sviluppate per diversi anni. E oggi, a distanza, c'è poco da criticare. E andata come è andata. E non è andata nemmeno troppo male, a ripensarci.


In "L'Immaginazione", n. 103, aprile-maggio 1993, pp.1….

Nei giorni 1-2-3 aprile si è svolto a Reggio Emilia un convegno dal titolo: "63/93 Trent'anni di ricerca letteraria". Pubblichiamo nella prima parte di ''l'immaginazione'' alcuni materiali presentati al convegno (l'intervento di apertura di Luperini, il quale viene contemporaneamente pubblicato su "Baldus"); altri materiali si possono trovare sul volume "Gruppo 93. Le tendenze attuali della poesia e della narrativa", antologia di testi teorici e letterari (Lecce, Piero Manni, 1993) e su "Terza Ondata. Il nuovo Movimento della Scrittura in Italia" (Bologna, ES/Synergon, 1993); infine riportiamo due interventi, di Ferroni e di Guido Guglielmi, sul Gruppo 93 e sull'avanguardia.

Romano Luperini

Per la critica della retorica nel 63 e nel 93: continuità e rotture

1. Nei confronti del Gruppo 63 sono possibili due approcci diversi: uno, storicistico, consiste nel rapportarlo al momento in cui nacque, collocandolo in un continuum storico e chiedendosi quale è stata la sua funzione di rinnovamento in esso; l'altro, che potremmo chiamare dialettico, consiste invece nel rapportarlo a una esigenza di rottura della continuità e dunque a un'idea alta di avanguardia come sovversione e sabotaggio e come coscienza del nesso arte-mercato e arte-museo. Ovviamente entrambi questi tipi di approccio sono legittimi e possono avere una loro utilità; meno legittima sarebbe, invece, la loro sovrapposizione e confusione. Per quanto mi riguarda li praticherò entrambi, ma cercando di tenerli accuratamente distinti. La pratica di due piani diversi di analisi e di giudizio mi sembra d altronde necessaria anche per evitare il rischio di ogni ricorrenza (rischio quasi fatale anche quando, come in questo caso, gli organizzatori vi si oppongano): quello della celebrazione. Celebrazione e storicismo, come si sa, si danno agevolmente la mano. E niente, credo, sarebbe meno avanguardistico di una celebrazione storicistica di un'avanguardia.

2. Stupisce, a trent'anni di distanza, l'accordo attuale dei protagonisti del movimento di allora. Ecco una rapida rassegna dei loro giudizi di oggi sulla funzione avuta trent'anni fa dal Gruppo 63, pubblicati sull'ultimo numero dell'"lmmaginazione" (n. 102, febbraio-marzo 1993).

Barilli esordisce affermando che, alla fine degli anni cinquanta, essendosi esaurita "la fase di una cultura contadina" ed essendo l'Italia entrata nel novero "delle società industriali avanzate", si trattò allora di "porsi alla pari col flusso di oggetti, materiali e linguistici, provenienti dal mondo della produzione" e di "adeguarsi anche ai ritmi celeri che quel mondo, e la connessa tecnologia, prevedevano". E continua così: "Diveniva insomma una specie di obbligo per tutti di porsi a quei nuovi livelli di esperienza, riconoscendoli necessari, inevitabili, e rinunciando così ad esercitare nei loro con- fronti le condanne paleo-umanistiche".
Giuliani analizza assai sottilmente la condizione della poesia che sarebbe stata in una situazione di "attesa tormentosa" già nell'immediato dopoguerra. Poiché la linea dei "Lirici nuovi" anceschiani era ormai logorata e incapace di "rinnovamento", e postermetici e neorealisti da parte loro sembravano egualmente impossibilitati a rinnovare "il linguaggio e le forme", bisognava "riesaminare l'intera tradizione moderna, non solo italiana, per darsi un linguaggio più "reale" [...]. Bisognava riattraversare l'esperienza moderna, comprese le avanguardie; porsi problemi di metrica, di sintassi, di lingua comune intrecciata col ritmo di gerghi colti, di forme che mettessero lo stile in movimento".
Infine Sanguineti ricorda che si trattò di proporre una letteratura alternativa a quella allora dominante "riportando al centro le categorie di ricerca, di rischio e di avventura culturale" e che l'accordo fu raggiunto non "sopra le risposte" ma "sopra le nuove domande che la situazione rendeva necessarie, in quella congiuntura", anche perché, aggiunge, trovarsi concordi sulle domande era più importante che concordare sulle risposte.
Stando a questi tre protagonisti, il problema principale del Gruppo 63 fu dunque di "porsi alla pari", di "adeguarsi" ai nuovi modi e ritmi produttivi (come dice Barilli), di puntare su un "linguaggio più "reale"" rinnovando forme e tecniche (Giuliani), di praticare una letteratura alternativa che partisse dalle "nuove domande che la situazione rendeva necessarie" (come dice Sanguineti, ma anche Barilli parla di "una specie d'obbligo" imposto dalla situazione oggettiva). Si tratta di descrizioni e di valutazioni largamente condivisibili ma tutte interne a una prospettiva storicistica. La giustificazione storicizzante è identica; identica la caratterizzazione del Gruppo nel senso de! rinnovamento più che dell'eversione o della rottura. Persino Sanguineti, che anche in questa occasione appare il più radicale, qualifica poi la nuova letteratura con categorie "Tutto ciò significa che il Gruppo 63 non fu un'avanguardia? Naturalmente si tratta di intendersi sulla parola. Se per avanguardia s'intende un movimento di rottura e di sabotaggio, animato dalla consapevolezza teorica del nesso arte-mercato e volto strategicamente a porre in questione entrambi i termini (la letteratura come istituzione e come merce), direi proprio di no. E poiché ritengo che le risposte siano state trent'anni fa non meno importanti delle domande, aggiungerei che solo Sanguineti e pochissimi altri, all'interno del Gruppo 63, ebbero tale livello di coscienza e intesero porsi a tale livello dello scontro. Se invece per avanguardia si intende un rinnovamento culturale volto ad adeguare le strutture ideologiche e le poetiche letterarie al nuovo momento economico e sociale non solo dell'Italia ma dell'Occidente, a sostituire un vecchio apparato di potere letterario e a liquidare una vecchia concezione dell'intellettuale e pratiche artistiche ormai obsolete, allora si deve dire di sì. Tuttavia, in questo secondo caso, la nozione di avanguardia perde ovviamente la sua carica più radicale per assumere quella di un cambiamento quasi fisiologico e comunque storicamente necessitato. Più che sabotaggio della letteratura vi fu sabotaggio di una letteratura, indubbiamente egemone in Italia ma ormai superata dallo sviluppo economico e produttivo e dal livello cultuale europeo.
Nessuno potrebbe oggi negare il valore di choc che comunque ebbe quel rinnovamento. Il cambiamento fu profondo e decisivo: niente, dopo il Gruppo 63, è stato come prima. Neppure la reazione, che pure c'è stata, e particolarmente aggressiva e virulenta, nel quindicennio successivo alla sua estinzione. Ma l'accordo dei protagonisti, trent'anni dopo, significa, se non erro, appunto questo: il Gruppo 63 è stato un'avanguardia solo nel secondo senso sopra illustrato. Chiarire questo punto può servire non solo a fare piazza pulita di una serie di confusioni e di illusioni, ma a fare chiarezza sul dopo, sul ventennio che ci divide dal tramonto della stagione dello sperimentalismo.

3. Una parte consistente del Gruppo 63 ha avuto un ruolo dominante in questo ultimo ventennio senza dover rinnegare nulla del proprio passato. Preciso che quando parlo di un ruolo dominante non intendo tanto un ruolo di potere (quasi ineliminabile a certi livelli dell'operazione letteraria) quanto un ruolo culturale in accordo con le ideologie dominanti. Penso a Porta che, sino al momento della morte, ha assunto una funzione di primo piano nella gestione della poesia e ha in parte fiancheggiato anche i momenti di reazione antisperimentale del periodo 1973-1985. Penso a Eco che, con Il nome della rosa, ha segnato in profondità i destini del romanzo contribuendo in modo decisivo alla sua riduzione entro gli schemi dell'intrattenimento cosiddetto postmoderno. Penso a Malerba, passato senza scosse dall'irrisione dell'ordine all'elogio del "caos felice" (parole sue) del postmoderno. Fra i critici, penso soprattutto a Barilli che rivendica non senza ragione una propria ininterrotta continuità, l'applicazione delle stesse categorie come teorico della neo avanguardia e come teorico del postmodernismo e una linea di coerente svolgimento nel suo sostegno ai narratori sperimentali degli anni sessanta da un Iato e ai cosiddetti "nuovi romanzieri" (Tabucchi, De Carlo, Busi, Tondelli) dall'altro. E potrei fare diversi altri nomi, da Viviani a Vassalli. Sarebbe troppo facile e anzi del tutto scorretto credere che si tratti di vicende personali o addirittura di adeguamenti opportunistici. Si tratta piuttosto di cogliere un'effettiva linea di continuità culturale e ideologica che si è sviluppata e consolidata fra anni sessanta, settanta e ottanta, in parte intersecandosi con la reazione antisperimentale e in parte magari da essa distinguendosi. Come non vedere, per esempio, che l'enfasi posta sopra l'irrelatezza del linguaggio passa dagli anni sessanta agli anni ottanta? Un'idea assoluta del linguaggio accomuna l'oltranzismo strutturalista a quello poststrutturalista, lo scientismo neopositivista all'antiscientismo heideggeriano, il primo al secondo Barthes, l'Umberto Eco strutturalista privilegiante l'aspetto ludico e combinatorio dell'operazione linguistica all'Umberto Eco nominalista e teorico della semiosi illimitata. Credo anzi che vada cercato qui oggi il limite storico del Gruppo 63, quello che al suo interno ha aperto le brecce attraverso cui sono passate le ideologie neoermeneuti- che e postmoderniste. D'altra parte era anche fatale che la logica dell'adeguamento alle nuove strutture produttive divenisse, in alcuni, adeguamento alle strutture culturali dominanti.
E poiché, mettendo da parte per un momento l'ottica storicistica, le risposte hanno importanza più delle domande, non è certo un caso che le contraddizioni interne al Gruppo 63 negli anni sessanta si rinnovino, al di là della solidarietà di gruppo (che nella cerchia del "63" è comunque fortissima), negli anni ottanta di fronte all'emersione del cosiddetto postmoder- no: Barilli, Eco, Porta, Malerba da un Iato, San- guineti, Pagliarani, Giuliani e anche Angelo Guglielmi dall'altro.
Cosicché mi sembra possibile formulare due ipotesi di carattere generale: 1) Nella sottolineatura teorica della scissione fra parole e cose e nell'ottica panlinguistica che la dà per scontata, nel gusto per un pastiche aideologico e non orientato, privo di spessore e di profondità, nella contaminazione acritica e nel gioco al limite della gratuità, nell'apertura e nella disponibilità fenomenologiche e dunque fini a se stesse, nella pura mi mesi del caos squadernato dalla realtà delle apparenze, cominciano a profilarsi, negli anni sessanta, aspetti di poetica e modi letterari che si svilupperanno negli anni ottanta, seppure ormai castrati da ogni istanza di rinnovamento, normalizzati e abbassati (secondo le opportune definizioni di Barilli); 2) all'interno del Gruppo 63 e della vasta area sperimentale degli anni sessanta la contraddizione interna era forte almeno quanto l'unità che pure fu necessaria per costituire un fronte compatto contro il vecchio, cosicché è possibile definire due linee in opposizione reciproca che si prolungano sino a oggi: quella che unisce alcune linee di tendenza presenti nel Gruppo 63 alle poetiche e alle pratiche postmoderniste e quella, minoritaria, che non ha abbandonato il terreno dei significati e delle cose e ha mirato a costruire costellazioni e allegorie nelle quali far riemergere le contraddizioni reali (e qui, oltre ai nomi già fatti, dovrei indicare quelli di Leonetti e di Di Marco e anche di Balestrini).

4. Con tali ragionamenti siamo già entrati, quasi senza accorgersene, in quel topos del discorso critico storicistico che è la valutazione dell'eredità di un fenomeno. Direi anzi che questo capitolo mi appare, pur nella sua contraddittorietà, particolarmente ricco e stimolante, cosicché su di esso tornerò fra un attimo. Prima, però, due parole conclusive sull'approccio dialettico alla questione. Perché il Gruppo 63, invece di sabotare la letteratura e di giocare tatticamente sulla sua autonomia per porre in questione, strategicamente, la sua eteronomia mercantile (secondo le lucidissime proposte, per esempio, di Sanguineti), si è limitato a rinnovarla dall'interno e ad accettare "cinicamente" il mercato? Ovviamente, si potrebbe obiettare che tale domanda non è pertinente oggi, che una visione dialettica di questo tipo è antiquata e inconciliabile con le ideologie e con la realtà oggi dominanti che escluderebbero la possibilità di contraddizioni e preannuncerebbero o constaterebbero la fine della storia. Caduto il conflitto, non resterebbe infatti -si dice- che la possibilità di uno sventagliamento paratattico o pluralistico delle differenze. E magari non mancherà chi, saputo o minaccioso, tornerà a citare la caduta del muro di Berlino. Ma, a parte ogni altro tipo di considerazioni (quanto sta accadendo sotto i nostri occhi su scala mondiale è ben altro dalla fine delle contraddizioni e della storia), non si può dimenticare che un'aspirazione all'autocontestazione interna dell'arte sino alla sua soppressione non solo come merce ma come realtà separata ha attraversato gli ultimi centocinquant'anni di storia letteraria passando attraverso i vari gradi del tragico, della vergogna, del comico o della farsa.
Quanto alla risposta, oggi è di moda darne una fondativa tanto più paradossale in quanto espressa da una filosofia che proclama a gran voce di voler distruggere ogni tipo di fondamento. L'arte, si dice, è costitutivamente "debole" e dunque non sopporterebbe progetti forti o proiezioni teleologiche. Anziché contestarsi essa dovrebbe porsi come modello insuperato di valori: l'avanguardia sarebbe dunque per un verso una bestemmia e per un altro una contraddizione in termini. Lasciando tali ipotesi metafisiche ai presunti dissolutori della metafisica, una risposta va trovata sul terreno concreto delle trasformazioni economiche e sociali che sono state avviate a partire dalla seconda metà degli anni cinquanta. L'ideologia dominante all'interno del Gruppo 63 ha prodotto un rinnovamento largamente omogeneo alle linee di sviluppo segnate dalla rivoluzione dell'elet- tronica e dell'informatica, dalla diffusione di beni immateriali e virtuali, dalla riduzione del mondo a linguaggio e a immagine. Le sue problematiche si sono socialmente avverate , normalizzandosi e massificandosi: la contaminazione, il citazionismo, il plurilinguismo, il pluristilismo, la prevalenza dei significanti, delle immagini e delle figure sui significati, lo sconvolgimento delle tradizionali categorie di tempo e di spazio, gli effetti spaesanti di una rutilante contiguità di tutto con tutto sono diventati luoghi comuni del cosiddetto postmoderno, imponendosi con la forza stessa delle trasformazioni tecnologiche che hanno modificato la qualità della produzione e della vita negli ultimi quarant'anni. Separate dalla coscienza oppositiva al mercato, che d'altronde fu patrimonio solo di una minoranza, le tecniche proposte dal Gruppo 63 sono diventate l'orizzonte normale della vita sociale. Cosicché col Gruppo 63 un certo tipo di avanguardia, come rinnovamento pura- mente linguistico e tecnologico, realizza para- dossalmente se stessa inverandosi nella pratica sociale del capitalismo informatico e così esaurendosi definitivamente.

5. Torniamo al capitolo dell'eredità. Ho mostrato sinora quella passata nelle ideologie e nelle pratiche postmoderniste. E tuttavia, nel quindicennio fra il 1973 e il 1988, la reazione ha largamente prevalso. Il romanzo ha deposto la ricerca sperimentale ed è tornato a strutture narrative concilianti e seriali, mentre in poesia si è affermata una generazione di poeti ortici e innamorati, che hanno riproposto il ritorno al mito, alla bellezza, al simbolo e per predicare la naturalezza estetica hanno paradossalmente riscoperto D'Annunzio: a riprova che, una volta perduta l'innocenza, non giova proclamarla a gran voce per farla ritornare.
Poi, a partire dall'89, qualcosa comincia lentamente a cambiare. Emerge una nuova gene- razione di poeti -la terza, se consideriamo come prima quella dei "novissimi"-. Si dicono allegorici e polifonici in opposizione al simbolismo e alla assolutezza monologica dei loro immediati predecessori. Come accade a ogni nuova generazione, sono condizionati non solo dai tempi in cui si sono formati (gli anni ottanta della stagnazione politica e morale e del post- modernismo trionfante), ma dai termini stessi della loro polemica. Una cosa era stata venticinque anni prima avere per referenti polemici Pasolini o Fortini o Sereni o Luzi, un'altra è prendersela con Conte, Cucchi, De Angelis o Bellezza. Comunque sia, si forma una nuova koinè letteraria, più attiva e incisiva in poesia che nella narrativa (in cui i nomi nuovi sono veramente pochi, ma fra questi vorrei fare almeno quello di Ottonieri). In essa il cosiddetto Gruppo 93 ha avuto un ruolo importante anche se non esclusivo, precariamente perimetrando, almeno per qualche tempo, una realtà invero assai frastagliata. Ha osservato giustamente Giuliani che il lascito dei "novissimi" (ma anche di alcuni loro sodales come Cacciatore e Villa) è evidente nella propensione "per la poesia pensante, la poesia giocosa e ironica, la mescidanza degli stili" che egli riscontra nella pratica di questo gruppo.
Forse è possibile aggiungere qualcosa, precisando ancor più queste indicazioni. Vi è una serie di atteggiamenti e di figure che ,dai "novissimi" e in modo particolare da Pagliarani e Sanguineti passa nella ricerca dei due gruppi più significativi, quelli di "Baldus" e di "Altri luoghi", ma anche nell'elaborazione di altri centri di aggregazione, sia in Emilia che a Roma. Direi che, all'interno di questa area, mostra la vitalità della propria eredità soprattutto l'ala del Gruppo 63 più impegnata, attraverso il montaggio, in una costruzione allegorica dei significati. Ecco un elenco di questi lasciti che stabiliscono una linea di continuità fra il 63 e il 93: il rifiuto del "poetese" e la scelta di un lessico basso-realistico, del plurilinguismo e del pluristilismo; il rifiuto dell'identificazione da parte del lettore e la scelta conseguente dell'estraniamento, raggiunto facendo esplodere dall'interno la tradizione (è il caso del gruppo ligure, di Berisso, di Gentiluomo e soprattutto di Frixione) o aggredendola dall'esterno attraverso la recitazione e mettendo in conflitto autore e voce recitante (è il caso di Baino, Voce, Cepollaro); l'abolizione delle metafore e delle correspondances simboliche e la prevalenza accordata invece al principio metonimico della contiguità; la soluzione allegorica ottenuta attraverso il montaggio (come in Cepollaro e in Voce) oppure attraverso l'attrito fra significanti e significato (come nei liguri); la tendenza alla durata, alla costruzione e magari alla narrazione, d'altronde conseguente al ripudio della istantaneità lirica e simbolica; la riduzione dell'io che cessa di essere il centro lirico della poesia. Basta questa rapida rassegna per testimoniare che, senza l'esperienza dei "novissimi", questa nuova poesia non sarebbe stata neppure pensabile.
Ciò tuttavia non significa che la nuova koinè della poesia giovane si limiti a riprodurre modi e temi di trent'anni fa. Anzitutto non mancano elementi originali di novità nella loro ricerca, come la ricchezza di soluzioni polifoniche nel senso pieno, bachtiniano, del termine, col connesso rifiuto del semplice collage (invece ampiamente praticato all'interno del Gruppo 63), il ricorso al dialetto e a linguaggi letterari rimossi o remoti, l'importanza del momento orale. Inoltre questi giovani poeti non si fanno alcuna illusione sul potere eversivo dell'operazione linguistica in quanto tale, né nutrono la fiducia neopositivistica nell'autosufficienza combinatoria della lingua: puntano piuttosto sulle contraddizioni dei significati che fanno emergere dalla vita reale o dal passato. Sono infine, almeno i più fra loro, assai scettici sulla possibilità reale di ripristinare oggi un'esperienza d'avanguardia e sempre pronti a mettere in discussione anche la loro semplice appartenenza a un "gruppo". E ciò li induce a marcare con una certa insistenza la loro distanza dal Gruppo 63.
Non senza motivo, credo. Ritengo infatti che la loro esigenza di differenziazione rispetto al Gruppo 63 vada capita e possa accampare alcuni buoni argomenti.
Il Gruppo 63 mirò, sin dall'inizio, a occupare saldamente il centro del sistema letterario. Fu un'alternativa interna al centro e comunque volta alla conquista del centro. Non è vero che, nel suo complesso, si collocò fuori del sistema. Solo una sua minoranza pose questioni extrasistemiche o antisistemiche e infatti è rimasta, per scelta o per imposizione dei fatti, ai margini e all'opposizione. Anche i linguaggi convocati a dissolvere il sublime lirico della tradizione erano pur sempre linguaggi del centro e del presente: quelli delle avanguardie occidentali, ma anche quello della fisica in Pagliarani, dei giornali quotidiani in Balestrini, dell'onirismo e della mitologia junghiana in Sanguineti. In questi giovani invece la scelta del dialetto o di linguaggi letterari remoti (da Jacopone a Catullo, da Marino e da Michelangelo al "Novellino") assume l'aspetto di un ritorno del represso storico e del periferico; si assiste, nella loro ricerca, a uno spostamento verso gli estremi e verso i margini, cosicché il conflitto non è più interno al centro né volto alla sua conquista ma slitta fra centro e Iati, fra presente e passato, fra repressione o rimozione e ritorno delle istanze represse. Si passa a una conflittualità fondata sullo spostamento di Iato, giocata sullo scarto, che intende sottolineare non tanto una dialettica all'interno di un sistema, quanto uno sforzo di non-appartenenza (per usare l'espressione di Ottonieri). Beninteso, nessuno di loro crede a una innocenza di cui godere restando ai Iati. Il centro è così onnipervasivo e totalizzante da non lasciare aperto al suo interno alcuno spazio e da non consentire alcuna salvezza dall'inquinamento che produce in qualunque angolo ci si rifugi. Ma almeno, stando ai Iati, praticando una letteratura della lateralità, è possibile ancora vedere, fuori, le contraddizioni reali e cercare di ritessere i rapporti che legano le parole alle cose; e così tenere aperto un conflitto con il centro.
Lo spazio che si è chiuso è quello che un tempo opponeva, all'interno del sistema e dei gruppi in esso dominanti, il potere del linguaggio e il linguaggio del potere. Il Gruppo 63 è stato l'ultimo tentativo di forzare questo spazio, aprendo la forbice fra il potere del linguaggio e il linguaggio del potere. Ma questo tentativo, negli anni in cui maturava la rivoluzione informatica e la forbice si stringeva, doveva realizzarsi di necessità solo come rinnovamento della istituzione letteraria e inverarsi solo come surrealismo linguistico di massa della società postmoderna; e i giovani non possono oggi che trarne tutte le conseguenze.
Credo che vada colta e valorizzata nel suo significato di sintomo la costante attenzione all'extralinguistico e all'extratesto che accomuna, per esempio, i gruppi, pur diversi fra loro, di "Baldus" e di "Altri luoghi", con la messa in questione del carattere irrelato del letterario attraverso la materialità della polifonia e della voce nel primo e con l'ironia metrica e il furore allegorico volto a colpirne l'''auctoritas'' nel secondo. Non è forse un caso che un recente scritto di poetica di Cepollaro si intitoli Non come dire, ma con che cosa dire. Al posto di una dialettica dei linguaggi e dei poteri si propone un ritorno alla materialità del significare, anzi, come suona un verso di Voce, al "duro/zoccolo del significare", cioè a un rapporto fra parole e cose.

6. Attraverso la rivoluzione informatica, negli ultimi trent'anni, il linguaggio, le parole e le immagini, la cultura di massa, sono divenuti, nel contempo, la nuova merce-guida-business and entertainment, come dicono gli americani- e il tramite diretto di un'automazione del controllo sociale, vale a dire trasmissione diretta del potere, senza più bisogno di una autonoma (o apparentemente autonoma) mediazione sociale. Il controllo sulla cultura è stato assunto direttamente dai grandi trust. Il termine industria culturale che qualche tempo fa faceva ancora torcere il naso alle anime belle è già obsoleto: la produzione di linguaggio e di cultura non è che un aspetto, e sempre più importante e decisivo, della produzione industriale tout court. Attraverso il linguaggio, nelle fabbri- che come nella società, il comando è divenuto automatico e immateriale esattamente come l'obbedienza. Linguaggio e potere coincidono come forse mai nella storia umana. Feticismo della merce e feticismo del linguaggio sono diventati una cosa sola, costituendo la solida base materiale delle ideologie ortiche, neoromantiche, neo-simboliste così come del ritorno all'estetismo neoheideggeriano e "debolista". Gli intellettuali come "autonomi" depositari del linguaggio e mediatori sociali sono scomparsi. Così nella società della riduzione dell'esistenza a spettacolo e a pura apparenza è caduta ogni distinzione fra potere del linguaggio e linguaggio del potere. Il mondo, la storia, la vita sono stati ridotti a linguaggio, cioè a retorica. Il centro onnipervasivo che ci controlla è un centro linguistico: esso ci parla ma da esso anche siamo parlati. Tutto, in esso, è pura trasmissione. Esso accoglie, rielabora, trasforma in merce e trasmette qualsiasi innovazione che voglia essere solo linguistica. L'atto di approfondire il solco che divide parole e cose gli è del tutto interno. Da questo punto di vista, il destino di una parte consistente del Gruppo 63 appare già iscritto nel suo ambito.
Oggi una letteratura che voglia essere conflittuale dovrebbe lavorare a rovesciare il postulato che regge il pensiero di tutti i martres-à penser del postmoderno, da Gadamer a Derrida a Eco: nomina nuda tenemus. In anni come i nostri in cui la retorica è divenuta -et pour cause- la nuova disciplina-guida, una nuova letteratura dovrebbe criticare la retorica, tenerla in scacco, lavorare a ristabilire un legame fra la realtà del linguaggio e delle apparenze e la realtà delle contraddizioni. Se il linguaggio è la merce-modello che intasa il mercato, il nesso arte-mercato va posto a questo livello: la lotta contro la retorica può diventare allora un aspetto della lotta contro l'eteronomia mercantile.
Che ciò possa accadere non dipende solo, né principalmente, dai poeti. Troppo spesso dimentichiamo questa ovvietà e rischiamo di scambiare col mondo la tinozza in cui sgambettano venti ranocchi-letterati -e io fra questi-. Tuttavia ogni scelta stilistica è anche una scelta politica, un'assunzione di responsabilità. Se ho seguito con attenzione le ricerche di alcuni fra i giovani poeti coagulatisi intorno al cosiddetto Gruppo 93, è perché mi è sembrato che la loro tensione stilistica verso la lateralità comporti un'evocazione allegorica del diverso, un'assunzione di responsabilità verso l'''altro'', verso ciò che è fuori e al di là del linguaggio. Mi ha interessato e mi interessa che la scelta del confine, del periferico, del rimosso non sia, per loro, una semplice scelta linguistica; che infine, e soprattutto, alla linguisticità del mondo essi non credano.
Nessuno propone, ovviamente, un nuovo contenutismo. La lezione dei "novissimi" e del Gruppo 63 non è passata invano. E d'altronde non manca, neppure all'interno del Gruppo 93, chi preme il pedale di uno sperimentalismo gratuito. Si tratta piuttosto, come diceva Benjamin, di cessare di rifornire l'apparato di produzione dominante e di individuare quelle tecniche che consentano di interrompere la trasmissione e poi magari di accompagnare il colpo al bersaglio. Di nuovo: non solo come dire, ma con che cosa dire. Bucare il linguaggio, fargli assumere una materialità di cosa. Allora il rischio che si corre può diventare il nuovo programma di cui ha parlato Ottonieri: la non-appartenenza. Poiché il linguaggio è il nuovo centro e il centro è dappertutto, porsi ai Iati e interrompere la trasmissione può significare la non-appartenenza come scomparsa dalla scena; ma può significare anche ricerca di una soluzione extrasistemica o antisistemica. In fondo, da centocinquant'anni, proprio questa è la scommessa.

Due domande su avanguardia e Gruppo 93...
1) Il Gruppo 93 è o non è un'avanguardia tenendo anche conto del fatto che gli autori del Gruppo non vogliono esserlo, dicono di non esserlo?
2) Quali sono gli elementi di continuità e di discontinuità rispetto alla neoavanguardia?

a Giulio Ferroni
1) Mi pare che qualsiasi uso della nozione di avanguardia debba oggi partire da un confronto con i caratteri della comunicazione globale e con la totale perdita di peso che, entro di essa, ha avuto la tradizione artistico-letteraria in tutte le sue espressioni. L'avanguardia partiva da una esigenza assoluta di rottura delle forme del passato e da una proiezione in avanti, verso una nuova configurazione della "vita": oggi, di fronte alla vorticosa insensatezza del post-moderno, di fronte alla sua negazione di ogni "memoria" e al suo movimento verso un nulla eterogeneo (insieme residuale e virtuale), sembra che sia piuttosto necessario ritrovare le tracce della memoria e far "resistere" quel po' di vita che resta. Una letteratura "sperimentale", se vuoi essere veramente tale, deve saper scavare, attraverso il linguaggio, nel fondo di questa situazione, nelle residue possibilità conoscitive del letterario: inutile proiettarsi verso un futuro che è assolutamente illusorio ten- tare di prefigurare e accelerare col gioco delle forme artistiche. Più che riprovare all'infinito a forare lo schermo del letterario (cosa troppo facile e consunta), sarà il caso di scontrarsi con l'invadenza assoluta dei linguaggi telematici e pubblicitari; non riprodurre atti di shock gratuito, diventati moneta corrente nella nostra stessa vita quotidiana, ma combattere lo shock insensato che domina le forme attuali della comunicazione di massa.
È giusto quindi che non si parli di avanguardia, ma di sperimentazione rivolta a rompere gli equilibri della comunicazione presente. Partendo dalla condizione di inevitabile marginalità della letteratura, si mira a ricavarne una conoscenza critica della realtà presente nella sua totalità: anche se non so fino a che punto le varie costellazioni del Gruppo 93 riescano a sentire fino in fondo questo obiettivo.

2) Tra gli elementi di continuità con la neoavanguardia c'è in primo luogo l'azione diretta sul linguaggio, il turbamento di ogni comunicatività diretta, l'insistere su prospettive metaletterarie, la coscienza della necessità di saldare pratica letteraria e riflessione teorica, la carica battagliera e "militante"; d'altra parte l'esperienza della neoavanguardia, come quella del '68, ha lasciato una traccia essenziale nella nostra cultura, ha creato una sorta di terreno comune da cui non si può in nessun modo prescindere. Ma ciò che allontana radicalmente dalla neoavanguardia la situazione presente (e in essa anche esperienze come quella del Gruppo 93) è la totale caduta della centralità storica della dialettica intellettuale: i neoavanguardisti erano ancora convinti che operare sul linguaggio equivalesse direttamente ad operare sul mondo; oggi non è più possibile crederlo (salvo a difendere posizioni corporative o di illusorio micropotere), e i giovani lo sanno molto bene. Ciò significa anche che non può esistere nessuna linea o tendenza letteraria a priori "giusta", da identificare settariamente con il "giusto" movimento della storia: la sperimentazione deve essere necessariamente aperta, disposta a rovesciarsi e anche a negare se stessa, proprio per mantenere fede all'obiettivo prioritario di collocarsi entro le contraddizioni del mondo.
Il rapporto con la neoavanguardia comporta d'altra parte anche un pericolo non indifferente: la ripetizione troppo letterale di certi schemi neoavanguardistici rischia di condurre talvolta non ad una vera aggressione ai linguaggi oggi dominanti, ma ad un gioco di riciclaggio, ad un manierismo tardosperimentale, ad una consunta metaletterarietà, tutte cose che rientrano perfettamente entro i caratteri del postmoderno. Una mera continuità con la neoavanguardia non produce nulla di "nuovo", ma annega nella vacuità e nell'inerzia postmoderna, in un manierismo subalterno, in un riciclaggio di parole d'ordine che possono anche credersi "rivoluzionarie", ma che in realtà hanno perso ogni contatto con l'emergenza del presente.

a Guido Guglielmi
1) Che un poeta sia o no d'avanguardia, potrebbe anche essere una questione terminologica. C'è una letteratura che prendeva le distanze dall'avanguardia, che non si riconosceva d'avanguardia, e che ha prodotto le massime invenzioni formali di questo secolo. E la diciamo spesso d'avanguardia. Credo però che non si possa fare a meno di usare la parola "avanguardia", quando la poetica (sperimentale) è anche una politica, risponde a un progetto politico, si vuole eteronoma. Ora a me sembra che i poeti del cosiddetto gruppo '93 -si riconoscano o no d'avanguardia- abbiano risollevato il problema del rapporto di poesia e politica. Che essi poi rifiutino o usino con circospezione la parola "avanguardia", è il segno della difficoltà di potere oggi compiere un'azione comunicativa in un contesto di distratta accettazione e di omologazione di tutti i segni (postmoderno). Il "terrorismo" delle avanguardie è infatti oggi del tutto addomesticato. E quasi cioè impossibile non essere arcadici o "tecno-arcadici". Però questo mentre rende insufficiente lo sperimentalismo (l'invenzione formale), porta non al rifiuto del politico, e neppure a una sua facile rioccupazione, ma a un problema del politico. Che una autoriflessione della letteratura non dia come già posta e decisa e programmata la sua condizione di possibilità -o di impossibilità-, che non si chiuda in una teorizzazione de! gioco e del piacere del gioco, mi sembra quindi essere un fatto interessante sotto il rispetto politico.

2)Certo bisogna chiedersi qual è la singolarità di questi nuovi poeti. Le loro connessioni con i poeti che li hanno preceduti (e che continuano ad essere produttivi) sono infatti evidenti. Il montaggio, d'altra parte, è una tecnica d'avanguardia e modernista in generale. Per la poesia della nostra neoavanguardia possiamo parlare, in parte, di un modello Pound. I giovani poeti tentano di restituire a questa tecnica una significatività in situazione. Oggi -sembra chiaro- non è il nuovo il principio della critica. C'è oggi un problema di alienazione dalla storia e di totale estraneità del futuro. Il nuovo appartiene alla sfera di un presente senza storia. Significa mutamento nell'invariabilità di una sincronia o di una temporalità meccanica. Ritengo quindi essere una direzione promettente e caratterizzante del lavoro dei poeti del gruppo '93 (in generale) l'uso di materiali linguistici diacronici e lo sfruttamento delle possibilità della nuova oralità. Dinamizzare e temporalizzare il presente, laddove l'ideologia dominante è quel- la di un mondo programmato, risponde - così leggerei i loro testi- a una volontà di demistificazione e di recupero della memoria e dell'invenzione linguistica.

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