Romano Luperini, Intellettuali, non una voce, pubblicato su "l'Unità" del 18 febbraio
2004:
Nel settembre 1975 un episodio di cronaca nera, il delitto del Circeo (due giovani fascisti pariolini avevano seviziato due ragazze di borgata, uccidendone una), divenne un episodio culturale: Calvino, Pasolini, Fortini lo commentarono sulla .prima pagina del Camere della sera e del Mondo, leggendovi una trasformazione complessiva della società italiana e della condizione giovanile. I protagonisti del dibattito letterario e culturale erano allora anche protagonisti della vita pubblica. Né c'erano solo Calvino, Pasolini e Fortini, ma anche Sciascia, Fo, Sanguineti.
Nel 1974 Fo aveva rappresentato per la prima volta il suo capolavoro, Mistero buffo, e Sciascia pubblicato Todo modo in cui denunciava la collusione fra DC e mafia.
Sempre il 1974 è l'anno in cui Volponi era uscito con Corporale e la Morante con La storia. Pochi mesi prima erano stati pubblicati Pasque di Zanzotto e Il castello dei destini incrociati di Calvino e sugli schermi cinematografici era apparso Amarcord di Fellini; pochi mesi dopo Montale vincerà il Nobel e usciranno Scritti corsari di Pasolini e Il muro della terra di Caproni.
Trent'anni fa. Gli intellettuali avevano ancora una funzione pubblica, l'Italia un posto sulla scena internazionale della cultura. Il dibattito letterario e artistico era ancora vivo e le riviste culturali promosse da scrittori potevano occupare ancora uno spazio etico-politico (Alfabeta comincerà a uscire nel 1978, e sarà l'ultima). I registi italiani erano maestri riconosciuti in tutto il mondo, e si chiamavano Fellini, Antonioni, Visconti, Pasolini. Fra gli scrittori, Calvino e Sciascia avevano un ruolo di primo piano in Europa. Poeti allora poco più che cinquantenni come Zanzotto, Luzi, Sereni, Fortini, Pasolini (o anche più giovani, come Sanguineti) godevano in Italia di un'autorità già riconosciuta.
Oggi non ci sono più, fra gli scrittori, dibattito culturale e politico e conflitto di poetiche, né, fra i critici e i teorici della letteratura, dialogo e polemica fra i vari metodi (non ci sono più, nemmeno, metodi identificabili: trionfano l'eclettismo e, come è stato denunciato da tempo, la «crisi della critica»). Fra il 2002 e oggi non sono usciti romanzi e film neppure paragonabili a quelli sopra ricordati. Nessun poeta che abbia fra i cinquanta e i sessant'anni ha in Italia un'autorità e un prestigio come quelli che avevano allora Zanzotto, Sereni, Luzi, Fortini, Pasolini, Sanguineti. n ruolo internazionale del cinema, del teatro, della letteratura italiani è vicino a zero.
Di quello che sta succedendo nel mondo o in Italia nella produzione letteraria non c'è quasi traccia. Gli esordienti che ogni anno si presentano a «Ricercare» si dilettano in racconti ginecologici e ombelicali, a base di cazzo e di vomito; gli scrittori di mezza età si attardano in uno stanco postrnodernismo manieristico. Per il cinema - se mi è permessa un'incursione in un campo che non è il mio - si è parlato recentemente di ritorno a un confronto con la realtà e con la politica, ma, visti in questa luce, i film che dovrebbero esprimerlo risultano alquanto deludenti: La meglio gioventù esalta una ricca borghesia idillica, progressista e buonista con casolari in campagna in Toscana e si conclude con cartoline illustrate da Stromboli e dalla Val d'Orcia e con la grottesca apparizione del fantasma del fratello morto a unire la coppia dei protagonisti e a santificare il lieto fine nel modo più scontato e tradizionale: The Dreamers ripresenta la vecchia storia morbosa dell’incesto facendo del Sessantotto solo uno scenario casuale ed esterno; Buongiorno notte evita prese di posizione chiare e si conclude anch’esso con fantasie buoniste. Persino Moretti, che pure è fra i pochi che s’impegna direttamente, troppo spesso come regista riduce la prospettiva politica a un mal di pancia personale.
Si obietterà giustamente che la situazione storica è cambiata e la figura dell’intellettuale legislatore tramontata per sempre. E tuttavia il panorama dei prodotti letterari e filmici che ci giunge dagli Stati Uniti e dal resto d'Europa, oltre a essere spesso di qualità più elevata, è assai più ricco e vivo, meno evasivo e narcisistico, più fervido di richiami alla realtà sociale e politica. Nessuna generica deprecatio temporum, dunque. Si tratta piuttosto di prendere atto di un declino della civiltà italiana, o comunque di una sua parte consistente, avviatosi già a partire dagli anni Ottanta e accentuatosi poi con il passare degli anni sino a toccare m questo inizio di millennio un suo punto estremo. Parlo di un declino, dunque, non solo politico ed economico (su questo siamo d'accordo tutti), ma anche intellettuale. Di questo immiserimento culturale e civile, dilagante in ogni piega della società italiana, lo stesso caso Berlusconi – neppure, infatti, immaginabile in Gran Bretagna o in Francia o in Germania – è piuttosto un effetto che una causa. I Europa un italiano ha da vergognarsi non solo del proprio governo. È in questione, insomma, un generale clima etico-politico. Siamo davanti a uno sbracamento complessivo, a una mancanza di orgoglio culturale e di dignità nazionale, a un disinteresse per la cosa pubblica, a una accettazione frettolosa di ogni novità indotta dalla americanizzazione. Fenomeni come lo scimmiottamento scomposto di quanto c'è di peggio oltre Atlantico, l'adozione indiscriminata di termini americani (una sorta di “similinglese”) nella sfera pubblica e nella produzione letteraria, o la diffusione di un gergo e di una ideologia economicisti anche in settori che non dovrebbero rispondere in primo luogo a esigenze di mercato, quali la scuola, la ricerca, la sanità, precedono l’attuale esperienza di governo di Berlusconi (l’ultimo di centro-sinistra non è stato certo esente da colpe in proposito). A suo tempo Gramsci aveva mostrato come dietro i fenomeni linguistici si dovessero leggere precise strategie egemoniche delle forze politiche ed economiche. Ma oggi, in Italia, chi si ricorda di Gramsci (ben presente, invece, nel dibattito culturale attuale negli Stati Uniti)?
Mentre un terzo del pianeta muore di fame, di Aids, di guerre, e milioni per [sic] persone in cerca di una possibilità di sopravvivenza cominciano a invadere il nostro paese; mentre saltano in aria le Twin Towers e si stanno gettando le premesse per un immane contrasto di civiltà e di religioni; mentre si assiste a una drammatica palestinizzazione del pianeta; gli intellettuali italiani (se non tutti, certo quasi tutti) sembrano in tutt'altre faccende affaccendati. Giulivi, disinvolti, narcisisti, furbi, pronti a fiutare ogni moda e ogni indirizzo del mercato culturale, sommersi nel clima di declino morale e civile in cui viviamo. Privi di passato e di futuro. Felicemente immemori e accecati.
C'è stato un salto fra le generazioni. Nessuna eredità. Fortini, Sciascia, Volponi sono stati dimenticati; Pasolini è stato ridotto al- l'icona di un santino omosessuale e un po' trasgressivo; Calvino è diventato un classico per gli accademici e i professori dei licei; la neoavanguardia un oggetto da museo (d‘altronde hoc erat in votis) e da tesi per le scuole di dottorato. Il postmoderno con il suo disincanto e il suo manierismo giocoso e disimpegnato, in agonia già da tempo, è morto, definitivamente crollato con le due torri di New York.
Ma nessuno in Italia sembra essersene accorto. All’inizio degli anni Settanta Pasolini parlava, per il nostro paese, di un genocidio culturale in corso. C’è stato e ha fatto tabula rasa. Il postmoderno italiano è stato questo genocidio; e dunque, pur risentendo di quello internazionale, ha avuto caratteri propri. Rispetto agli Stati Uniti, alla Francia alla Germania, alla Gran Bretagna l'Italia aveva tradizioni culturali moderne assai più fragili, un costume civile più approssimativo, più posticcio e precario. il tessuto della memoria e del patto fra le generazioni si è lacerato da noi più che in altri paesi, facendo affiorare una trama esclusiva di facili disimpegni, di egoismi di interessi individuali (o di gruppi o di corporazioni), di atteggiamenti indici e di agili cinismi. La crisi dello «stile», della «profondità» e dello spessore è servita come lasciapassare all'appiattimento e alla banalizzazione linguistici, all'azzeramento delle tradizioni, alla rincorsa dei modelli proposti dal mercato editoriale e, talora, al ripristino di calligrafismi e di improbabili lirismi e autolatrie. Ne ha risentito non solo il clima civile e politico, ma la stessa qualità della produzione almeno nel campo della letteratura e delle discipline umanistiche.
È possibile andare avanti cosi? Non mi faccio illusioni, e questi ultimi éI1ni hanno insegnato che non c'è confine al peggio. Tuttavia segni di allarme ci sono, benché si levino sinora più dal mondo politico e civile che da quello, perlopiù beatamente incosciente, della letteratura. D'altronde anche questa separazione di ambiti è un segno da tempi, e a essa sono dovuti, almeno in parte, la sordità e il ritardo stessi dell'ambiente letterario e artistico.
Questa stessa chiusura però oggi è minacciata. Ci si può illudere di vivere, come il postmodernismo ci aveva fatto credere, in un mondo esclusivamente linguistico di rifacimenti e di pure parole che si ripetono all'infinito quando il mondo si va palestinizzando, le nostre piazze, i nostri aeroporti e le nostre metropolitane sono a rischio, e intere popolazioni premono ai nostri confini? Si può continua;e a coltivare la futilità e a giocare sull'orlo dell'abisso?
È successo altre volte che la storia salti una generazione. Nasceranno nuovi scrittori, e si impadroniranno della nostra lingua (già lo stanno facendo) giovani intellettuali albanesi e magrebini. Qualcuno forse ricomincerà a leggere Fortini e Sciascia, Volponi e la Morante, Vittorini e Pasolini.
Roberto Controneo, Editori e media, i primi a voltare
le spalle agli intellettuali, pubblicato su "l'Unità" del 19 febbraio
2004:
IERI Romano Luperini ha aperto una discussione sulla crisi della cultura di
questi anni. Rispetto soltanto a trent’anni fa. Trent’anni fa Dario Fo scriveva
Mistero Buffo, Italo Calvino Il castello dei destini incrociati, pubblicavano
libri Fortini e Caproni, Pier Paolo Pasolini raccoglieva in volume gli Scritti
corsari, Elsa Morante scatenava furibonde discussioni con La Storia.
Trent’anni fa c’era una società intellettuale prodigiosa, attenta a fotografare
un paese in evoluzione e vivace. E Luperini conclude: oggi non c’è nulla di
tutto questo, nessuno che scriva libri di quel livello, anzi.
Non so se è vero. Perché credo che nel ragionamento di Luperini ci sia un errore.
E questo errore finisce per portarlo fuori strada.
1.Il punto di partenza è un altro. Di che cosa è fatta la cultura e la letteratura
di un paese? Non è fatta soltanto dei testi, non è solo il raffronto tra la
Morante di ieri e la Mazzantini di oggi. È fatta della capacità di tracciare
un disegno, una mappa della cultura in cui vivi. Per far questo hai bisogno
di poter scoprire gli autori che oggi possono avere un peso. Oggi non c’è nessuno
che mette in gioco il suo ruolo di critico per capire cosa oggi è degno di essere
messo a fuoco. Anzi, i migliori critici di questi anni non si occupano di quell’officina
letteraria che è la contemporaneità. Non lo fa Claudio Magris, non lo fa Cesare
Garboni, e neppure Piero Citati. Non lo fanno gli accademici, da Cesare Segre
a Franco Moretti, persi troppo spesso in dissertazioni filologiche interessanti,
ma buone soltanto per i loro studenti. Lo faceva invece Maria Corti, e per questo
non la rimpiangeremo mai abbastanza.
2.Lo pseudoliberismo falso e baro è arrivato come un uragano anche nel mondo
delle opinioni, della cultura e della letteratura. La colpa è di un clima generale.
Ma anche del mondo dei media. I primi a voltare le spalle agli intellettuali
e agli scrittori sono stati per lo più gli editori e le direzioni di giornali
e riviste. Negli anni è venuta a crearsi una equazione perversa. Che diffida
della complessità, della cultura, dell’essere intellettuale. Cinema e letteratura
devono essere comprensibili, devono appassionare, devono avere successo. C’è
una paura autentica nei confronti di tutto quanto non si facile o banalmente
attraente. Buona parte delle polemiche, dei saggi, dei romanzi che uscivano
trent’anni fa oggi sarebbero impubblicabili.
Troppo spesso i giornali hanno contribuito ad abbassare il livello culturale
di questo paese. Alcuni anni fa un periodico che si chiama La rivisteria pubblicò
un’indagine quantitativa delle recensioni che escono sui giornali. Risultava
che in poco più di dieci anni lo spazio delle recensioni si era ridotto di un
quarto. Questo è un segno preciso. Il luogo comune dice che scrivere troppo
non serve, quel che puoi dire in cinque pagine lo puoi dire in trenta righe.
E così lentamente si è modificato lo stile. Via i periodi lunghi, via i ragionamenti
complessi, via le citazioni colte. I giornali uniformano nettamente il livello
delle pagine culturali. Nella logica del vendibile è impensabile che non si
debba scrivere più di venti righe su un autore.
3. Certo che in questo modo il risultato è il deserto. Vale anche per la televisione.
Dove da anni non esistono più programmi culturali, se non in tarda notte. Dove
nei telegiornali non si parla di libri e di cultura perché si abbassano i termini
di audience, dove tutto è banalizzato. Colpa di Berlusconi? Certo, colpa anche
sua. Ma non solo. Il fenomeno è evidente da almeno quindici anni, e Berlusconi
è arrivato dopo. Certo, le sue televisioni commerciali, con una volgarità ben
evidente, hanno aiutato non poco ad arrivare a questo deserto. Ma l’epoca del
Tuca tuca di Raffaella Carrà non era certopiù colta di quella di Drive In.
La colpa è di tutti. E oserei dire che la sinistra è stata la più brava a fare
il salto della quaglia. Colpa di studi approssimativi e diffidenze nuove. La
cultura è un potere, un potere intellettuale certo, ma pur sempre potere. L’idea
che un potere possa sfuggire al controllo di chi gestisce i media è inconcepibile.
E così siamo vittime di una arroganza mediatica che spinge verso il basso qualunque
ipotesi di eccellenza. E lo fa togliendo spazio e parlando soltanto di ciò di
cui si parla già troppo. Come fai a trovare un autore nuovo se non si fa che
parlare sempre degli stessi? In pochi nei giornali hanno la possibilità di scommettere
su un nuovo autore. E quei pochi che potrebbero, che hanno l’autorevolezza per
farlo, si dedicano a tutt’altro. Scrivono ottimi e lunghi articoli su Apuleio
o su Rilke o su Pascoli.
4. Ormai il danno è fatto. E non resta che santificare tutti. Calvino è diventato
un classico, Pasolini anche, e poi Lalla Romano, Maria Bellonci, e tanti altri.
Li hanno sommersi di polvere. E oggi non si riesce più a discutere di niente.
Nemmeno loro. Sono nate collane di classici dove ci hanno messo persino una
scrittore come Pier Vittorio Tondelli: bravo e amato, certo, ma non un classico.
È una forbice che si allarga. Sotto: un indistinto agitarsi di gente che scrive.
Sopra, nell'Olimpo: una folla di scrittori che hanno apparati critici degni
di Leopardi. In mezzo c'è il vuoto. Poi certo qualcuno, ogni tanto, il coraggio
ce l'ha. E Nino Borsellino cura e pubblica l'edizione critica delle opere di
Andrea Camilleri. Solo che ha dei dubbi che Camilleri sarebbe entrato nei classici
se avesse venduto soltanto mille copie di ogni suo romanzo.
5. Nell'ultimo decennio sono apparse su tutti i giornali le classifiche dei
libri più venduti. Ma nessuno si sogna di pubblicare le classifiche dei ristoranti
che fanno ogni settimana più coperti. Finirebbe che al primo posto risulterebbe
qualche autogrill dell’autostrada del sole, non certo Vissani. Se un libro vende
si crea il «caso», nuovo squisito genere cultural-giornalistico che non vuol
dire nulla. E i casi, in questo paese provinciale, sono tutti stranieri. Siamo
un popolo che legge traduttori, che spesso scrivono in un brutto italiano. Siamo
un popolo che non è più abituato a leggere un italiano letterario. Io non credo
che Valerio Magrelli abbia molto da invidiare a Giorgio Caproni, che Guido Ceronetti
sia più disprezzabile di Franco Fortini, che Roberto Calasso o Umberto Eco siano
meno geniali dello Sciascia di Todo modo. Come non credo che Bernardo Bertolucci
sia meno brillante rispetto agli anni di Ultimo tango a Parigi. Peccato che
nessuno però si premuri di spiegarcelo. I narratori ci sono tutti, e ci sono
ancora: Luigi Malerba, Sebastiano Vassalli, Antonio Tabucchi, Domenico Starnone,
per fare i primi nomi che mi vengono in mente. Poi, certo, i best seller da
far passare come letteratura ci sono oggi come ieri. E ci sono i fenomeni passeggeri,
cannibali, scrittori inventati, autori da premiopoli screditati, compilatori
furbi di libri da trenta pagine, o anche meno. Ma c' erano allora come ci sono
oggi. Solo che allora non avevano spazio da nessuna parte, oggi se lo sono preso
tutto a scapito degli altri.
6. Siamo sommersi da un'estetica nazionalpopolare sconfortante. Da una cultura
vecchia e immobile anche quando osa mettere in campo i giovanilismi più improbabili.
Con una scuola e una università che diventano via via sempre più inadeguate.
È un problema di coraggio. Il coraggio di sostenere delle tesi, il coraggio
saper leggere, il coraggio di scrivere cose che restano, e non soltanto polemiche
vivaci che lasciano il tempo che trovano. Io penso che questa di Luperini si
una polemica giusta. Ma non si può aspettare che qualcuno regali spazi preziosi
(nel senso del profitto più banale) alla cultura. Perché non accadrà. E non
si può più stare fermi a leggere recensioni finte e piatte, che trattano libri
e film con lo stesso metro e con la stessa ipocrisia e spesso incompetenza.
Ma soprattutto è arrivato il momento di smettere di piangersi addosso, e di
puntare il dito contro molta informazione culturale che ci dovrebbe guidare
e spiegare le cose, che si rivela di una miopia critica e intellettuale che
nel futuro non finiremo mai abbastanza di pagare.
Aldo Busi, Nostalgia di una laicità italiana mai
esistita, pubblicato su "l'Unità" del 19 febbraio 2004:
Siccome la giornata stava smistando agli arrivi e l’occhio mi è caduto sul
titolo in prima pagina «Intellettuali, non è una voce», prima ho comperato l’allegato
quotidiano e poi ho visto di che testata si trattava, l’Unità, appunto. Letto
l’incipit, non certo trascinante, sono poi andato a pag. 24 per il seguito e
di nuovo l’occhio, anziché cadermi sulla prima riga, m’è caduto sull’ultima
frase.
«Qualcuno forse ricomincerà a leggere Fortini e Sciascia, Volponi e la Morante,
Vittorini e Pasolini». Questo è tutto ciò che ho letto dell’articolo, a parte
una riga con dentro la parola Gramsci: non mi sono più ripreso.
Io non so se posso abbassarmi a considerarmi un intellettuale, visto che non
sono organico ad alcun centro di potere, ne’ politico ne’ religioso ne’ industriale
e tanto meno massmediatico, e tuttavia ho una mia piccola esperienza, decennale,
da raccontare: di censura preventiva non andata in porto, di lusinghe vuoi striscianti
vuoi palesi (delle vere e proprie intimidazioni), di tentativi di manipolazione
e di omologazione (in cambio anche di lauti compensi,e almeno di una poltroncina,
parecchio redditizia) e di messa in riga della mia coscienza e della mia persona,
tentativi ovviamente naufragati senza eccezione dal primo più recente. E, nell'impossibilità
di incollare tutti gli spezzoni di mie partecipazioni televisive registrate
e trasmesse, sì, ma dopo essere state ripulite a puntino, prima o poi raccoglierò
tutte le mie Lettere al Direttore cui temi caldi e a caldo del Paese e mai pubblicate.
Il titolo l'ho già, da anni: Vaffanfax. Risulterà che una voce c'è sempre stata:
la mia -opera letteraria a parte, questa mia voce l'ho prestata di volta in
volta, spesso gratis, anche al Manifesto, a Repubblica, alla Stampa, all'Espresso,
a l'Unità stessa: storpiata, menomata, soggetta a prese di distanza, silenziata,
rimossa anche lì e ovunque, e gliel'ho tolta all'istante.Già sbattuta a suo
tempo la porta di Max, l'ho sbattuta a Gq un paio di mesi fa e dopo un paio
di mesi, sicché non rispondo neppure dell'integrità dei pezzi in giacenza che
vorranno continuare a pubblicare o meno -e sto parlando di mensili disposti
a pagare 5.000 euro al netto delle spese per sentire, in apparenza, la mia voce,e
in un reportage, in sostanza, come per tutte le altre scervellate testate italiane,
per farla diventare un ventriloquio in una rete, in un gabbia di riferimento.
Sia come sia, non è facile, nemmeno logisticamente, essere intellettuali partecipanti
alla vita civile ossia impegnati, come avrebbe detto mia nonna Margherita se
fosse stata tanto in mala fede di essere alfabeta come costoro, visto che non
le faceva certo schifo lavorare e che considerava anche le mani, i geloni, le
piaghe parte della gloria del suo cervello di tutti i giorni: o fai parte di
un sistema mediatico, e quindi, nel caso specifico, del demanio-monopolio degli
officianti ufficiali di sinistra (ma non credo che sia facile neppure per un
intellettuale di destra, e specie se di destra liberaleuropea, farsi sentire
se non fa parte del rapinoso Carro di Tespi della destra di governo) o qualsiasi
cosa tu dica e in qualsivoglia momento cade nel vuoto, cioè nell'indifferenza
forzosa che occulta la paura di una sfumatura -sempre morale, talvolta addirittura
estetica - che se resa pubblica, se fatta entrare in circolo, renderebbe obsoleta
tutta la grigia tavolozza che puntella l'attualità dei portavoce accreditati
da quel dato clan (per non entrare nel concetto di modernità in politica, visto
che la politica qui è sempre clericale culto passatista, proprio come per l'articolo
di Luperini e gli autori che raccomanda di tornare a leggere, è sempre verbosità
scaramantica per riappropriarsi, almeno romanticamente, di un privilegio del
poter dire o di una preminenza/presenza letteraria scaduti per sempre). Io,
per esempio, li ho letti i Quaderni dal carcere di Gramsci: barbaro l’avercelo
buttato (nessuno è più antifascista di me), ma meritava l'ergastolo solo per
come scriveva, la lingua da borghesuccio che usava (che lo usava senza che lui
se ne rendesse nemmeno conto); è costringere a leggerli a scuola, anziché accontentarsi
di parlare dell'encomiabile personaggio storico, che all’istante porterebbe
ogni assennato giovane a iscriversi al Fronte della Gioventù anche solo nell'illusione
di svecchiarsi di almeno trent'anni ovvero di risvegliarsi dal coma geriatrico
subito che lo assilla da settanta, sessanta, da cinquant'anni -da quarant'anni
tutti!
Quanto inchiostro sprecato sulla nevralgia da nostalgia! Il revisionismo storico,
letterario, critico, poetico che affligge l'acquirente di quotidiani e, se vuole
davvero sapere qualcosa di non concordato prima (...) sul Paese, lo costringe
a confinarsi sempre più verso Uomini e & Donne di MarIa De Filippi! Eppoi c'è
la nostalgia di una arcadica laicità mai avuta in Italia se non a parole di
gente che, gira e rigira, salta fuori dal gesuitismo - e non sto parlando di
Romano Luperini estensore dell'articolo che non so chi sia, anche se a questo
punto glielo avrei persino augurato.
Se l'Unità invece che a «Il declino dell'intellettuale italiano» avesse dedicato
con conoscenza di causa e, meglio ancora, di effetto - un quarto di tale spazio
a E io che ho le rose fiorite anche- d'inverno? di Busi stamattina qualcuno
saprebbe di certo qualcosa di più del Paese reale, della lingua, della politica,
dell'economia, dell'Europa, dell'Occidente e del mondo in cui vive, e potrebbe
comparare anche la qualità, la libertà, la credibilità, la civiltà -e anche
la bellezza, se può - fra voci aspiranti a un copione o già a libro paga e una,
una almeno, no. Un'altra verità sui giornali italiani a stampa nazionale che
possa farsi carico della mia firma per più di un paio di numeri non è ancora
nata, il che significa che quella esistente è morta da un bel pò, o no? Non
mi stancherò mai del vezzo di ripeterlo: nessuno che non abbia letto e goduto
l'opera di Busi può dirsi oggi di sinistra.
Ogni cordialità -mi fa piuttosto piacere constatare che uscite ancora regolarmente
in edicola, buona a sapersi.
Carla Benedetti, "Intellettuali non una voce": ci
voleva il punto interrogativo, pubblicato su "l'Unità" del 21 febbraio
e su Nazione
Indiana:
Caro Direttore,
qualche giorno fa "l'Unità" ha ospitato in prima pagina un articolo di Romano
Luperini dal titolo "Intellettuali, non una voce".
Alla persona che l'ha scritto mi sento solo di dire: "Si vergogni!". Si vergogni
prima di tutto della sua ignoranza, perché è evidente che di ciò che accade
in Italia in questo momento colui che scrive quelle righe non sa nulla. O, se
ne sa qualcosa, lo tace volutamente, avendo già deciso che non può esserci più
nulla, che non deve più esserci nulla. I suoi occhi e le sue orecchie sono già
state turate per partito preso. Un brutto partito, quello del lamento e della
chiusura preventiva, così funzionale alla rete di micropoteri che si è formata
e strutturata negli ultimi tempi in Italia!
Si vergogni della non generosità che dimostra nei confronti delle voci che in
questo momento, e da molte parti, stanno lottando per ricostruire luoghi di
espressione e di discussione, voci che non sono certo piene di ottimismo, eppure
sono mosse da un bisogno fortissimo di verità, un bisogno disperato di dibattito
vero, da strappare o da reinventare, laddove è possibile, in rete se non nei
giornali, nei blog, nelle riviste di poca diffusione, nei libri singoli o collettivi
(quelli di cui magari i giornali non parlano), nei centri sociali, nei teatri,
nelle aule universitarie, per strada.
Si vergogni della superficialità del suo lamento senile (non dico anagraficamente
senile, ma spiritualmente tale). Non ci sono più intellettuali? Non ci sono
più scrittori degni di questo nome? Non ci sono più registi? Non c'è più dibattito?
Non c'è più nulla di nulla? (La lista di ciò che non c'è più si è poi allungata
nelle risposte che quell'articolo ha innescato.
Continua
a leggere
Lello Voce, Scrittori e intellettuali: chi pensa debole scive debole, pubblicato su "l'Unità" e su www.lellovoce.it, il 22 febbraio 2004:
Leggere l'intervento di Busi subito dopo quello di Luperini è certo la conferma
più patente (e impressionante) che quanto dice il critico toscano è vero, anzi
verissimo. E ciò non tanto perché Busi si diletta a insolentire Gramsci, inanellando
una serie di corbellerie snob e proprio sul giornale che Gramsci fondò, non
perdendo (non sia mai detto!) l'occasione per fare un po' di pubblicità al suo
ultimo libro, o perché accampa meriti da censurato che in realtà non gli si
addicono affatto (e io potrei, anzi, citare il caso personale di una mia risposta
a un suo intervento, rifiutata da "Liberazione", solo perché avrebbe turbato
la sensibilità del prestigioso e capriccioso collaboratore e imbarazzato fortemente
il suo sconfinato amor proprio; il pezzo è ora on line a
http://www.lellovoce.it/article.php3?id_article=20 e chiunque, se vuole,
può leggere e giudicare), quanto perché, in realtà, tutto il suo intervento
di cinquemila e passa caratteri potrebbe essere sintetizzato in una sola parola:
IO.
Busi è la dimostrazione più estrema e patente di quanto facilmente il narcisismo
letterario si trasformi in autismo critico e finisca a parlar solo di se stesso,
dandosi dell'Egli. Di più: la maniacale concentrazione su stesso sembra nient'altro
che la traduzione letteraria (e dunque futile ed inane) del berlusconismo politico,
quello che confonde i suoi problemi personali con i guai grandi di questo paese
e, in fin dei conti, Busi ci fa la figura della ben nota mosca cocchiera a cui
abbiano, però, rubato il cocchio e a cui tocchi, quindi, far la strada trotterellando
in punta di piedi e facendo clop clop con la bocca.
Ma ha ragione Luperini, Berlusconi non è la causa, è l'effetto di questa nostra
naufragante Italia, e questo, nel suo specifico (e futile), vale anche per il
narcisismo autistico di Busi, effetto estremo di una politica editoriale e culturale
che fa degli autori delle icone da vendere a questo o a quel target, o dei divetti
(figli di un dio minore) che nel loro piccolo (nel loro minimo, a dire il vero)
passerellano a questo o a quel festival, in questo o quel salotto televisivo
(o sanremese, tutti luoghi che Busi frequenta e conosce assai bene), guardandosi
bene dal dar loro qualsiasi possibilità di starnazzare fuori dal pollaio. Povero
Covacich, povero Mozzi, con cui recentemente polemizzavo su queste colonne:
dopo aver letto Busi si è indotti a pensare che il dibattito 'esterofili vs
patrioti' possa addirittura essere un buon inizio. Meglio la conversazione da
Bar Sport che l'epifania busesca (busica? busiana? buserrima?). Mi sbagliavo
io. Chiedo venia a Mozzi e a Covacich.
Continua
a leggere
Tiziano Scarpa, La generazione dei padristi, pubblicato su "l'Unità" del 23 febbraio 2004 e su Nazione Indiana:
La civiltà italiana è in declino. Gli intellettuali tacciono. La letteratura
degli ultimi tre anni fa schifo. E poi non conta nulla all'estero. Gli scrittori
non discutono le loro poetiche, ammesso che sappiano ancora che cosa sono. Il
teatro è assente. Il cinema sta ancora peggio. Il paragone con trent'anni fa
è imbarazzante. Eccetera.
Solita storia. Ormai siamo abituati. Questa volta la lamentazione l'ha fatta
Romano Luperini. Non varrebbe neanche la pena di rispondere. La scena è sempre
la stessa. Ripetuta talmente tante volte da assomigliare a una gag comica, un
classico del cinema chiacchierone: il critico letterario di turno, lo studioso
di turno, lo scrittore di turno (intellettuali a loro volta!) che scuotono la
testa costernati di fronte al deserto intellettuale e creativo italiano: negli
ultimi anni lo hanno già fatto Luigi Baldacci, Cesare Garboli, Giulio Ferroni,
Alfonso Berardinelli, Giovanni Raboni, Mauro Covacich… Adesso anche Luperini.
(Non tutti. Bisogna essere onesti: Goffredo Fofi, Cesare Segre, Vittorio Spinazzola,
Renato Barilli, Angelo Guglielmi non hanno mai smesso di essere curiosi a tutto
campo e valorizzare ciò che nasce e cresce nella cultura italiana).
Questa volta però c'è qualcosa di più. Un caso di padrismo.
Luperini scrolla le spalle sardonico: poco male - dice -, è successo tante altre
volte che la cultura saltasse una generazione. Questa qui, dai cinquantenni
in giù, non sta dando nulla: la storia la scavalcherà. Arriveranno i barbari
a rinsanguare la lingua, gli immigrati stanno già scrivendo i romanzi italiani
del futuro. (Lo splendido sottinteso è: nel frattempo, che resti in carica la
generazione di Luperini!).
Ci sono almeno quattro modi di conservazione del potere. Il padrone, il padrino,
il paternalista e il padrista.
Il padrone possiede le armi e può sfidare apertamente oppositori e alleati:
se riuscite a rovesciarmi, fate pure. Io sono il più forte. È facile identificarlo
nell'Italia di oggi. È il sistema di potere culturale e politico di Silvio Berlusconi
che, in una democrazia mediatica, possiede tutta la propaganda che conta.
Il padrino coopta, annette, adotta figliocci: conserva il potere culturale
facendo mostra di cederlo e concederlo. Un esempio recente: Enzo Siciliano.
Uno attuale: Franco Cordelli. Uno sempiterno: Maurizio Costanzo.
Il paternalista si fa avanti ad aiutare i figli fin da subito, per affiancarsi
a loro prima che diventino consapevoli della loro forza e per lui sia troppo
tardi. Attutisce i traumi, è sempre presente per parare il colpo al posto dei
figli. Per sacrificarsi, in apparenza. Per essere sempre presente a governare
la situazione, in realtà. Elementi paternalistici si riscontrano in Goffredo
Fofi, e nei grandi vecchi del Gruppo 63.
Il padrista fa di più. Anche lui inorridisce alla prospettiva della propria
eclissi. Ma non cede nulla. Elimina completamente il passaggio di testimone.
Come ci riesce? In nome del bene comune: "Lasciare il mondo in mano a questi
inetti qui? Volete scherzare?" Geniale: non dice di farlo in proprio nome (come
farebbe il padrone), e nemmeno in nome del bene dei figli (come il padrino e
il paternalista), ma in nome del mondo! Quel mondo che lui stesso gestisce…
Baldacci, Garboli, Ferroni, Berardinelli, Raboni, appunto. E ora Luperini.
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Mario Domenichelli, Fortini e Pasolini? Impossibile
nell'era della fiction, pubblicato su "l'Unità" del 24 febbraio 2004:
L' intervento di Luperini ha sollevato un vespaio, Ed è già un bel risultato,
che indica come il colpo sia andato a segno. E abbia rigirato il coltello in
Una ferita già aperta. È sbagliato quell'intervento? Le colpe degli intellettuali
non ci sono? Si deve vergognare Luperini di quell'intervento? Vergognare magari
di non avere citato questo o quello? È vero c'è un colpevole silenzio degli
intellettuali? O non sarà piuttosto che gli intellettuali continua no a parlare
a scrivere, e molto, ma quello che scrivono non trova spazio di comunicazione?
Che non c'è spazio per le voci fuori dal coro? Che comunque non c'è una vera
e propria tradizione del dissenso nella cultura italiana (eccezionfatta per
Pasolini e Volponi)? Luperini ricorda il cinema e constata, cosa verissima,
che negli anni settanta il cinema italiano era altra cosa. Ma bisogna anche
dire che un film va prodotto, e OCCOrrono denari, occorre capitale, già, e un
film va anche distribuito, e qui si giunge al punto dolente, perché in Italia
c'è praticamente un monopolio della distribuzione, e film belli, magari bellissimi,
Possono essere messi a tacere semplicemente da una mancata distribuzione, per
non parlare ovviamente, di questi tempi, dei film prodotti dalla Rai. Ha avuto
distribuzione Buongiorno notte di Bellocchio. Perché non ha avuto praticamente
distribuzione, ne' promozione Piazza delle cinque lune di Renzo Martinelli?
Forse perché meno cauto, e "politicamente" meno avveduto?
In margine all'intervento di Luperini, bisognerebbe chiedersi che cosa si intenda
per intellettuale. E che cosa sia cambiato rispetto a trent'anni fa, e se oggi
siano pensabili figure come quelle di Fortini, Pasolini, Volponi, e soprattutto
se sia pensabile uno spazio come quello da loro occupato. La risposta che verrebbe
di primo acchito è che, no quello spazio non c'è più, o che oggi quello spazio,
dilatato a iperspazio mediatico, è occupato da altri. L'intellettuale, il filosofo,
ai tempi di Aristotele (Politica) era fuori dalla tassonomia sociale. L 'intellettuale
era apolites, proprio perché creatura, per così dire della verità, con il compito
di mediare agli uomini la verità del divino su cui si fonda la legge (ricordo
certe belle pagine di Mario Vegetti ne Il coltello e lo stilo, alla fine degli
anni Settanta). Ai tempi nostri, in clima di postmodernità, questo intellettuale,
questo filosofo, apolites non è nemmeno pensabile, o pensabile solo come creatura
del silenzio. Potrebbe anche parlare, se mai ci fosse, se mai ne fosse percepibile
la presenza, ma non troverebbe ascolto perché non troverebbe lo spazio mediatico
attraverso cui farsi ascoltare. Così si ha come l'impressione che i nuovi maitres
àpenser con Fortini abbiano poco a che fare. Chi ha veramente la signoria sul
pensiero oggi è prima di tutto chi ha la signoria sui media; e poi chi esercita
per conto d'altri questa signoria, e cioè anchor men e anchor women televisivi,
che rimangano tali finché sono in accordo con il potere che devono rappresentare
(e dunque in qualche modo celebrare ), poiché chi ha padronanza del mezzo, come
diceva McLuhan, ha anche padronanza del messaggio.
Così scopriamo che i nuovi signori del pensiero non hanno nulla a che fare con
Fortini, tanto meno con il Pasolini degli scritti corsari, o con Volponi. La
verità oggi trova altre costruzioni, viene raccontata da un'altra master fiction,
da un altro récit del dominio in cui non c'è gran spazio per alcuna chiave critica.
Coloro che governano il pensiero, garantendone l'assoluta ripetibilità, cioè
la ripetizione che lo rende pensiero unico, sono gli anchor men (women) televisivi,
come Bruno Vespa, come Giuliano Ferrara! e le esclusioni eccellenti pure riguardano
la stessa categoria, la stessa casta, diciamo: Enzo Biagi, Santoro, anche loro
maestri di pensiero, messi per il momento a tacere. Il fatto è che il tipo di
intellettuale che Luperini richiama è stato sostituito. Quell'intellettuale
continua certo a esistere, ma la sua voce, quanto egli si sgoli, per farsi sentire,
ha perso intensità. E quando riesce a farsi sentire, per qualche minuto, per
qualche riga, poca cosa in genere, ci riesce solo a patto di uniformare il proprio
pensiero a quello della master fiction dominante, del "racconto del potere",
attraverso cui il potere si celebra e rappresenta nei suoi effetti, rendendo
semplice il complesso. Così chi si vuole fare ascoltare, deve smentire di fatto
il proprio pensiero per renderlo comunicabile, telegenico, insomma, o telecompatibile.
Il pensiero critico, il pensare vero , non quello falso e falsificante della
ripetizione del già pensato, ha troppe complessità per il nuovo sistema mediatico
che richiede invece semplicità e non le complicazioni della visione complessa
delle cose, la visione cioè delle cose come sono.
Certo è possibile scrivere sui per i giornali, e sui giornali è persino possibile
scrivere anche parole fuori dal coro, ma, come dice il presidente del Consiglio
che sa bene di che parla non è sui giornali che si gioca questa partita, la
partita, cioè, di che cosa sia la verità in termini mediatici, e di come la
si costruisca, la si inventi, di come si costruisca la rappresentazione di massa
della realtà come falsificazione. È in televisione invece che tutto questo si
compie. Il controllo del Web e di Internet è 1'ovvio prossimo obbiettivo delle
istanze di potere e di dominio.
Luperini pare a noi lucidamente consapevole di fare riferimento a un mondo scomparso.
Non è nostalgia la sua; è la presa d'atto di un decesso, più che di un declino.
Ci troviamo in un mondo nuovo che si costruisce come totalità di ciò che è percepibile
(la cui percepibilità viene ammessa), e coincide pertanto con tutta la realtà
mediaticamente rappresentata più o meno falsificata, comunque manipola seconda
delle esigenze di chi ha signoria su immagini, parole, voci, facce, mezzi busti,
quiz e le gambe delle ballerine. Tutto ciò che è al di fuori di questa master
fiction semplicemente non esiste. Come dicevano Foucault e Lyotard letteralmente
non esiste ciò che resta fuori da questo grand recit, dal gran racconto del
potere, su cui il potere si fonda e di cui si costituisce. Se si vuole esistere,
dunque, se si vuole parlare, e dire parola udita, e vista, percepita, con tutto
che bisogna confrontarsi, o rassegnarsi al silenzio, magari credendo davvero
di parlare. Anche se si possono, si devono, sempre tenere accesi piccoli fuochi
per illuminarsi e riscaldarsi dal freddo della notte.
Antonio Moresco, Intellettuali «invisibili» o vista corta?, pubblicato su "l'Unità" del 28 febbraio 2004:
Sono ormai settimane che leggiamo quasi quotidianamente sui giornali e scrittori
rivista interventi e articoli che hanno come unico e generico contenuto il seguente:
in Italia non c’è più niente. Nessuno scrittore, nessun critico, nessun «intellettuale»…
A chi osa sostenere il contrario si ribatte che pratica l'intimidazione e l'insulto
o che è preda del proprio inguaribile delirio narcisistico autopubblicitario
(Lello Voce a Carla Benedetti e ad Aldo Busi su l'Unità). Come se si pretendesse
di fare un processo negando la parola agli accusati. Come se si dicesse (mentre
si guarda ostentatamente da un'altra parte) che in Piazza dei Miracoli a Pisa
non esiste la Torre, e la Torre- potendo parlare -non potesse nemmeno ribattere:.
«Guardate che io ci sono!».
Perciò voglio sottrarmi da subito a questo gioco truccato e a questo galateo
facendo degli esempi concreti e parlando anche di me stesso e del mio lavoro.
Tutto pensiero debole, scrittori deboli, lingua debole… sentenzia Lello Voce.
Bene. Sono decenni, prima come scrittore a lungo inedito e sotterraneo poi come
scrittore edito, che mi batto contro tutto questo. Una battaglia che si è configurata
in termini artistici e di pensiero anche in numerosi libri pubblicati da editori
del tutto visibili (Bollati Boringhieri, Feltrinelli, Rizzoli) e che ciascuno,
se lo vuole, può leggere. Alcuni di questi libri prendono di petto anche tutto
questo (Lettere a nessuno, Il vulcano, L 'invasione), altri, altrettanto interni
alla stessa onda, si spingono anche in zone di distruzione-costruzione e prefigurazione
(Gli esordi, Canti del Caos). Non esistono? E tutto pensiero debole, lingua
debole?
Altro esempio. Carla Benedetti ha pubblicato, negli ultimi anni, alcuni libri
assolutamente nevralgici su questi temi (Pasolini contro Calvino, L'ombra lunga
dell'autore, Il tradimento dei critici), anche questi pubblicati da editori
assolutamente visibili, ma con i quali la cosiddetta intellighentia del nostro
paese - accademica o no – ha sempre evitato di fare i conti preferendo vie del
facile sarcasmo e dell’offesa personale, quando non quelle dei tribunali. Non
esistono?
Ma ci sono numerose altre persone (oltre a chi – come Aldo Busi – è già intervenuto
sulle pagine dell’Unità). Come Tizioano Scarpa, che ha pubblicato un libro (Cos'
è questo fracasso?) che prende posizione direttamente e senza peli sulla lingua
su tutto questo, e interviene su giornali e riviste e anche in rete con intelligenza,
anticonformismo e coraggio e che ha pubblicato altri libri che si muovono verso
direzioni diverse fino all'ultimo, sorprendente Kamikaze d’Occidente. Non esiste?
E anche molti altri scrittori si muovono ciascuno a suo modo e con la sua personale
sensibilità in una direzione diversa da quella delle frettolose condanne che
vengono continuamente ospitate sui giornali e riviste. E ci sono giornali coraggiosi,
ci sono voci che vengono fuori qua e là dalle zone più impensabili, ci sono
libri collettivi (come Scrivere sul fronte occidentale, che raccoglie gli interventi
di scrittori, critici, poeti, registi e altri all'indomani dell'undici settembre.
E siti collettivi come Nazione Indiana, di cui fanno parte Dario Voltolini,
Carla Benedetti, Tiziano Scarpa, Helena Janeczek, Renzo Martinelli, Giovanni
Davide Maderna, Benedetta Centovalli, Raul Montanari, Aldo Nove, Andrea Inglese
e molti altri. E i libri e il lavoro in rete generoso, ardimentoso e instancabile
di Giuseppe Genna (Miserabili), quello di Valerio Evangelisti (Cannilla) e di
molti altri che hanno aperto uno spazio ulteriore e di verso nell'immaginario
di questi anni. Non esìstono?
In realtà ciò che non si vuole vedere (o si cerca di azzerare) è proprio il
fatto che si sta creando in questi anni, proprio in questi anni, uno smottamento
profondo. Le pagine culturali di giornali e riviste, tranne poche eccezioni,
non se ne rendono conto o cercano di difendere l’esistente in vario modo sono
talmente chiuse, arroccate e dominate da logiche istituzionali di casta e da
piccole e grandi lobby che è dovuto nascere addirittura un altro medium (in
questo caso la rete perché si potesse finalmente vedere un paesaggio diverso.
Non sto dicendo che là è tutto rosa, che qui c'è il paradiso. Ma qui perlomeno
i filtri vengono scavalcati, qualcosa passa, tutto è dì nuovo in gioco, si può
respirare. Certo, la situazione è tragica, e lo è ancora di più se usciamo dalle
logiche ideologico-politiche antropocentriche che si sono mangiate tutto e non
ci fanno vedere la vera emergenza, che è ormai quella di specie. Ma almeno si
ha l’impressione che qualcosa possa aprirsi di nuovo nella cappa soffocante
di questi anni, che non è solo quella del potere politico istituzionale. Mentre
dalle pagine di giornali e riviste figure di vario tipo, prese dentro un giro
dì frustrazione e identificazione con l’aggressore, pare ormai riescano solo
a dirci che tutto è morto, forse nella speranza che cosi non si veda che lo
sono loro.
All'Unità vorrei dire che non basta ripetere che Berlusconi è una vergogna e
un disonore per il nostro paese (cosa su cui sono assolutamente d'accordo) e
vivere su questa rendita di posizione, quando, in altri ma non estranei campì,
passano poi le stesse logiche e le stesse semplificazioni e astrazioni. La tragedia
è che non c'è solo Berlusconi (che già sarebbe abbastanza!). C'è anche tutto
il resto. Ci sono gli sciocchini protervi, i superficiali, gli ometti, c'è quello
che resta dei piccoli poteri ramificati delle cosiddette Avanguardie, che hanno
sempre cercato dì rendere la vita difficile agli scrittori nel nostro paese,
ci sono le piccole e grandi baronie che attraversano da parte a parte tutto
il quadro politico, accademico e culturale, le cricche di piccolo potere ma
di grande frustrazione e rancore che prosperano anche a sinistra sotto gli occhi
di tutti e sono spesso la nervatura di giornali e riviste che pure, in altri
campi, conducono una difficile e coraggiosa opera di opposizione in tempi tanto
plumbei e difficili. Piccoli gruppi e congreghe che occupano tenacemente piccoli
spazi di potere gregario e praticano l’inclusione e l’esclusione, quando non
il lavoro sporco per conto di qualche padrino e il linciaggio. Vecchi intellettuali
chierici incattiviti e frustrati che, non potendo più maneggiare precedenti
ideologie, maneggiano quelle nuove e terminali variamente riciclate e addobbate.
È il solito personale intellettuale, erede dei letterati allevati nelle corti
e abituati a fare i servi di grandi e piccoli principi e ora in vario modo collusi
con i nuovi poteri e le nuove industrie della normalizzazione e dell'intrattenimento,
vecchi marpioni e piccoli guardaspalle abituati al gioco della doppia verità
e con i piedi in dieci scarpe, gli stessi che già erano stati individuati con
lucidità da Leopardi, Pisacane, Gobetti… Non c'è solo Berlusconi. Quando non
ci sarà più Berlusconi (speriamo presto) ci sarà ancora una grande e disperata
battaglia da fare e un grande sogno da mettere al mondo.
Lello Voce, qualche timida e sommessa domanda a Moresco & Co. , pubblicato su www.lellovoce.it, il 28 febbraio 2004:
L'idea mi è venuta leggendo l'intervento di Moresco, oggi su L'Unità: è vero,
la Rete ci permette di essere più liberi (e mi fa piacere che persino Moresco
se ne sia accorto) allora, non ritenendo cortese continuare a tediare la redazione
del giornale con cui collaboro con la richiesta di avere spazio per rispondere
a questo o a quello, ho pensato che questo sito fosse il posto giusto per continuare
un po' il discorso. Voi che leggete (pochi o tanti che siete) vi prego, diffondete:
non ho l'indirizzo mail di molti che cito e meno che mai di Moresco, così magari
(col passaparola, e il copia-incolla) qualcuno di loro legge e infine risponde
alle mie piccole e modeste domande… Che nell'ordine sono:
1) E' colpa mia se Carla Benedetti aggredisce Luperini inveendo, arrivando al
punto di chiedere al Direttore de L'Unità di non pubblicare più certi interventi?
Sono io che sono in malafede, o una roba del genere è un invito alla censura
(se possibile preventiva)? Coi tempi che corrono, non mi pare cosa di buon gusto…
Eppure c'è chi protesta (anche in alto loco) dicendo che il mio articolo è pieno
di "insulti" , solo perché ho ritorto contro Cotroneo un termine da lui stesso
usato nel suo intervento - 'scrittori da premiopoli' -, mentre un mio amico
scrittore mi ha mandato un SMS scandalizzato, sostenendo che il termine 'Professoressa',
da me accostato al nome di Carla Benedetti, è un (rieccoci!) "insulto maschilista"…
Maschilista, sì, avete letto bene… Non è che c'è qualcuno tra noi che ha dosi
un po' troppo massicce di ego ed amor proprio? Eppure io non ho mai detto a
Carla Benedetti di vergognarsi e tacere, non l'ho definita un vecchio arnese
della critica. Né ho dato a Moresco, o a Scarpa del 'padrino'. Mi sono limitato
a dire che Busi era narcisista e criticamente 'autistico'. Che Cotroneo non
mi sembrava la persona più adatta a impersonare la letteratura di ricerca in
Italia. Ordinaria amministrazione letteraria, mi pare. Non ho chiesto che i
pezzi di Busi non fossero più pubblicati, perché insultava Gramsci sul giornale
fondato da Gramsci… Perché Carla Benedetti (o Busi, o Scarpa) può alzare la
voce con chi gli pare e io non posso nemmeno sottolinearne l'arrogante maleducazione?
Facendo così nego a Benedetti e a Busi il diritto di difendersi? Moresco lo
crede davvero? E difendersi da che cosa poi? Non mi pare che Luperini li attaccasse
personalmente nel suo intervento…
Continua
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Giuseppe Genna, Tanti saluti ai passeggeri del Titanic, pubblicato su I miserabili il 28 Febbraio 2004 :
Quando Tiziano Scarpa, nel suo intervento a proposito delle affermazioni di
Romano Luperini, ormai talmente viete e ripetute da non risultare più sconcertanti,
affronta la reiteratissima questione dei padri supposti e delle supposte paterne,
tocca un punto a cui io risulto molto sensibile (trattasi di un presente storico)
soltanto all'altezza dei primi anni Novanta. Ero davvero molto sensibile alla
questione dei padri letterari, poiché il mio, sfortunatamente, l'avevo appena
perduto: era Antonio Porta, morto nell'aprile '89, poco prima di registrare
una puntata del Costanzo Show (Luperini, che da decenni sfracanna con l'idea
di un'allegoria piattamente storica, dovrebbe essere parecchio interessato a
una morte banalmente metaforica come quella). Erano anni incerti. Alfabeta andava
a farsi fottere, la narrativa era apparentemente stenterella, la cricca marchettara
attorno a Luperini ancora non si era appassionata ai cannibalismi (un'operazione
formidabilmente cosmetica per il gruppo di Sanguineti & co, rivitalizzato al
semplice inventare un'etichetta non corrispondente ad alcuna realtà, il che
riassume le modalità di tutta l'avanguardia storica italiana). Si discuteva
di tradizione, nelle università - anzi, no, ricordo male, nelle università non
si discuteva più. Dopo l'ubriacatura del pensiero debole (etichetta che poteva
benissimo essere partorita da un Gruppo '63 filosofico), si stagnava in derridismi
d'accatto. La realtà veniva interpretata dalle comunità intellettuali non secondo
categorie post-modern, ma post-mortem. Nessuna pubblica attenzione alla controcultura.
Il trionfo della separatezza. La morte dell'arte. Un pantano mistico propalato
dai sostenitori dello storicismo. Fukuyama era una star e lo sarebbe tuttora,
se non fosse che, nel frattempo, si sarebbe realizzato che Fukuyama viene inverato
da Bush jr, quando non lo genera.
Continua
a leggere
Franco Cordelli, Dissolto il rapporto tra realtà ed esperienza estetica non ha che l'influenza del gusto di chi parla, pubblicato su "l'Unità" del 29 febbraio 2004:
Caro direttore, a proposito dell'intervento di Romano Luperini, celeberrimo,
credo che abbiano ragione tutti, nelle loro risposte, in specie Tiziano Scarpa:
il quale offre in più, Una serie di nomi nuovi in cambio dei vecchi, obsoleti,
o scontati. Dove Scarpa ha ragione fino ad un certo punto è ne11'allestire fasci
sbrigativi. È proprio sicuro che Baldacci si lamentasse come Luperini? Non ricorda
la dedica di Novecento passato remoto a Massimo Onofri, ad un critico dunque
deIl'ultima generazione? Riguardo a questo fascio di critici da Scarpa indicati
come lamentosi, mi limito a citare Baldacci, in quanto impossibilitato a difendersi.
Vengo piuttosto ai nomi degli autori. Alcuni coincidono con i miei eventuali,
che avrei suggerito all'attenzione di Luperini, non li avesse proposti Scarpa.
Ma sorprendente è l'insieme di quei nomi. Non avere notato che sono, con le
opportune e astute eccezioni, nomi di persone che abitano tra Milano e Venezia
e dintorni? Ciò insospettisce. Fa pensare che la visione di Scarpa sia angusta
(egli legge solo autori che vivono nelle sue regioni) o che egli legga gli autori
che conosce di persona; cioè i suoi amici; o che la linea innovativa da Scarpa
esposta, o sottintesa, esprima una pulsione regionalista, anche nell'aggressività
linguistica.
Del resto, perché stupirsi? Voi davvero ritenete che Einaudi sia, di Berlusconi,
solo una proprietà? Io invece penso, benché non possa dimostrarlo che nella
sua essenza, in quanto anima bella della cultura italiana, sia un editore ideologico,
abile oggi nel mascherare la propria ideologia populista. No posso dimostrare,
al pari di Scarpa, che non può dimostrare nulla del mio essere un fachiro (padrino
è il termine che, con la sua ben nota disinvoltura, affibbia a me e ad Enzo
Siciliano, accostando i nostri nomi a quello di Maurizio Costanzo: perché questo
accostamento? Scarpa potrebbe gentilmente spiegarlo?). E perché dico che Einaudi
è populista? Per esempio, proprio perché Scarpa ne è un consulente. Lo dico
osservando da un altro punto di vista gli autori da lui prediletti, molti dei
quali pubblicati da Stile Libero, collana pilota di Einaudi, e tutti contraddistinti
da un'espressività per cosi dire gergale. Ma lo dico anche rammemorando la carriera
professionale di Scarpa, le sue retoriche (di gruppo ), le sue gesticolanti,
melodrammatiche invettive. Cosa ha fatto Scarpa appena ha potuto? Si è impiegato
nell'editoria, vale a dire nell'unico luogo di vero Potere per chi abbia in
animo di fare lo scrittore avendo il Potere in mente. Prima lavorava da Feltrinelli
e Pubblicava da Einaudi. Poi si è messo a lavorare per Einaudi e a pubblicare
da Rizzoli: insomma, i piedi in tutte le staffe. Non a caso, egli ragiona sempre
in termini di paternità,di Potere, di Poteri culturali. Ne ha l'ossessione.
A proposito degli autori che Luperini o chi per lui potrebbero utilmente seguire,
avrei l'opportunità di nominare altri a ruota libera, guardando in tutta Italia:
nomi opinabili come quelli d' ogni personale elenco Ma, appunto, non sarebbe
che un elenco personale poiché - è il nodo cruciale della questione -non vi
è un'eclisse della vis creativa ma la lenta dissoluzione di un rapporto, tra
realtà ed esperienza estetica, un tempo riconducibile a ben altro che ad aree
predeterminate (regionali, araldiche, ecc.). Adesso, la critica è con le spalle
al muro: essa non ha che l'influenza del gusto di chi parla o la potenza del
luogo da cui proviene, del luogo, dico, politico o geopolitico. Per i registi
di cinema vale lo stesso discorso. Scarpa ha citato i più ovvi; quelli che vanno
di moda. E a proposito dei nomi nuovi del nostro teatro, osservo che la Raffaello
Sanzio è la vecchia avanguardia. Solo chi di teatro non sa niente può indicarlo
come un gruppo innovativo.
Infine: poiché in questo polemiche (mi riferisco a quella sollevata da Marco
Covacich) sono stato bersaglio anche di Angelo Guglielmi, a Guglielmi non posso
controbattere nulla in quanto critico del mio romanzo Il Duca di Mantova. Ma
posso constatare come i suoi argomenti siano da sempre gli stessi, speciosi,
speciosissimi. Nel 1968 intitolò un suo volume Vero e falso. Guglielmi lì è
rimasto. Per la sua poetica non si dà ambiguità. Si dà solo chiarezza. Berlusconi
o è buono o è cattivo. Un romanzo è un romanzo o non lo è: lo stesso vale per
un diario. E insomma: non è questa l'essenza melodrammatica del berlusconismo,
di cui riferisco nel Duca di Mantova? Non è il male della nostra berlusconiana
vita, dividere il mondo in così semplici parti? O non è, detto in altri termini,
l'essenza di ciò che la neo- avanguardia aveva definito come sindrome di Liala?
Enzo Siciliano, La logica della cultura? L’eccezione, pubblicato su "l'Unità" del 2 marzo 2004:
Sono per l'assenza, anche se mi capita di «intervenire» sui giornali; e cercherò
di spiegare perché. Per me l'impegno civile di un intellettuale è pari a quello
di qualsiasi cittadino, e le sue responsabilità in materia, per quanto abbiano
caratteri specifici, non possono essere quelle di un politico -che allo stato
presente sono gravissime. Al fondo, il chiacchiericcio sul «silenzio degli intellettuali»
mi sembra ozioso: un ennesimo risultato di quello sconfortante spirito pubblico
che ha sostituito in modo trionfale il giornalismo sociologico alla cultura
storica e alla letteratura.
L'Italia, dalla fine degli anni Settanta in qua, è forse il paese europeo che
ha più sofferto per il dileguarsi della propria sedimentata tradizione conoscitiva
sbracandosi sul tubo catodico della massmediologia. La nostra è una modernità
da telecomando. Lo stesso privilegio della società di mercato è diventato altro:
è diventato pura virtualità dell'apparire. Nella gara nefasta fra tv pubblica
e tv privata, consacrata con leggi ad hoc dai sigilli di una politica invasiva,
la regola dello share ha vinto su tutto, diventando criterio di giudizio. Di
conseguenza: impoverimento e decadenza della critica in ogni sua forma, e sua
metamorfosi, al meglio, in variopinto stelloncino pubblicitario. Delle riforme
scolastiche compilate per imperio al ministero di viale Trastevere neanche parlarne
(oppure: che società andrebbero a 'dipingere?).
La legge dei numeri ha vinto non solo in video, ma nei giornali, nell'editoria,
persino nei costumi casalinghi. Al ragionamento è subentrato l'esclamativo,
«Se le sparo grosse mi si dà ascolto...». La spregiudicatezza si verifica nella
capacità d'insulto. Screditare è un valore. Si finisce soltanto con fare l’elenco
dei buoni e dei reprobi secondo simpatie familistiche e di spicciolo borsellino.
Preferisco allora chi si mette da parte. Ho letto un'intervista di Luciano Cafagna.
Diceva su per giù: sappiamo benissimo che sui giornali è diventato inutile allineare
motivi e ragioni, confrontarli; devi tagliare all'ingrosso le proporzioni, devi
far capire soltanto che o stai di qua o stai di là.
Ha ragione Cafagna: non ci sono più spazi a distinguere. La distinzione, da
Machiavelli a Guicciardini a Vico a Croce, è stata il genio del raziocinio italiano.
Alla logica dei distinti è subentrata la logica del casino.
Il pensiero è debole. Altroché: il pensiero non solo è debolissimo ma è diventato
moneta che non ha corso, come i vecchi talleri d'argento con il profilo di Maria
Teresa stampati sul verso che ancora si possono trovare adoperati come fermacarte
sulla scrivania di qualche nostalgico. Le ideologie facevano forti gli intellettuali.
Direi di no. L'opera degli intellettuali, degli uomini di lettere era nutrita
dalla logica dell'eccezione. In tempi di massmediologia, il metodo dell'eccezione
è scivolato nel buio del superfluo. Ciò che è smerciabile perché immediatamente
classificabile deve essere comunque «allineato» e seriale: il resto è silenzio,
è la morte, lo diceva Amleto. Casomai, con le idee si gioca come in politica,
al bipolarismo: per sentirsi autorizzati a tirare botte da orbi.
L'opacità vera, il declino quasi indeclinabile, di cui si parla nasce da questa
disperazione che spinge alle improvvisazioni: ne risultano a nudo le nevrosi
di ciascuno, effetti di devastanti nottate passate in bianco. I Minima moralia
di Adorno tornerebbero d'attualità. Ancora di più, l'Angelus Novus di Benjamin.
Dal sistema analogico di Benjamin, la descrizione della società francese di
Lluigi Filippo controtipa intatta il presente: «La classe dominante fa la storia
curando semplicemente i propri affari. Essa promuove la costruzione delle ferrovie
per aumentare i propri possessi azionari..,». Difficile non fare raffronti con
quanto stiamo vivendo. «Il privato, che tiene conto della realtà del comptoir,
esige dall'interieur di essere cullato dalle proprie illusioni». Si potrà dire
che questo è materialismo sfacciato - anch'esso moneta fuori corso. Eppure ci
aiuta a leggere il mondo, a trovare un bandolo dentro le nostre passioni. Forse,
oggi, guardare all'interieur non significa quel che significava per Benjamin:
l' interieur come un universo dentro cui l'individuo raccoglieva il presente
e il passato. Penso che si debba sfuggire al casino. Sfuggendogli, riesco a
percepire quanto nella nostra cultura sia appassionante e reale la presenza
di uomini e donne che pensano, di uomini e donne che scrivono che rappresentano,
ciascuno dolo con se stesso, quella logica dell'eccezione che è il connotato
primo di una cultura attiva. So pure che il loro pensare e scrivere è per lo
più imbevuto di sofferenza, di frustrazione. Per loro però la cosiddetta anima
individuale non è il palco del teatro universale. L 'uomo privato sa che il
pubblico gli si è vietato di fatto: la sua supersuperfluità gli ha stampato
sui connotati il profilo dello stilista. Cosi, egli sa che il suo unico impegno
consiste nel trovare un cardine a parole altrimenti sfuggite al perno di qualsiasi
significato. È l'unica sponda di rivolta rimastagli. Non vive d'altro: là si
annida una traccia di speranza. Per questo penso che l'individualismo abbia
mutato di segno - è un dato di propulsione, e non di ripiega mento.
Non sono pochi, anche se stretti in un cerchio d'ombra, coloro che in Italia
si adoperano a tanto, Appaiono più numerosi è vero, quelli che i n luce spingono
a dividere, a industriarsi come usurai di parole -anche questa è una tradizione
che nel nostro costume ha forti radici. Passiamo fra discariche di insulti,
di menzogne calcolate, fra grandi manovre a intorbidare e sporcificare. Ai tempi
di Rossini la calunnia era per lo meno materia di farsa. Oggi è controprova
di tragedia politica. «Saremo gl'Iloti delle nazioni europee: e ben ci sta»,
scriveva Foscolo, ed era la primavera del 1814.Qualcosa da eccepirgli?
Fulvio Papi, Quel che l’oracolo dei media non dice, pubblicato su "l'Unità" del 2 marzo 2004:
Sull'Unità (21 febbraio) Beppe Sebaste nota con grande disappunto che non
vi è alcuna osmosi tra ceto intellettuale e ceto politico, e ha del tutto ragione
nel considerare che i discorsi che vogliono traghèttare da un orizzonte all'altro
restano senza voce e senza seguito. L'enunciato di per sé, come insegnava Foucault
(e come illude Sebaste richiamandosi alla nozione di archivio), è sempre vox
clamans in deserto: conta l'enunciazione, e oggi l'oracolo è l'eco solidale
dei mezzi di comunicazione. Ma oggi non esiste nemmeno un ceto intellettuale,
perché non esiste un minimo di omogeneità che contraddistingue un ceto intellettuale.
Se questo, in certo modo, è sempre esistito -pensiamo ai giornalisti di Balzac
e agli accademici francesi del suo tempo - oggi il fenomeno è differente, sono
caduti anche i confini tra i «sottosistemi». La differenza non è tanto tra giornalisti,
scrittori, filosofi, poeti, ma tra coloro che all'interno di queste suddivisioni
appaiono e quelli che non appaiono, e come ormai sanno tutti l'apparire è essere
(non un giudizio sull'essere come credeva Hegel nella sua Logica) .Così il discorso
sugli intellettuali dovrebbe diventare di due tipi: una fenomenologia dell'apparire,
come capita di apparire (pubblicità, mercato, potere, spettacolo, relazioni,
scambio, abilità ecc.), e come non capiti di apparire. E, secondo punto, che
cosa accade nel senso di quale della se invenzione di stile accade quando la
dominante della propria esperienza è la strategia dell'apparire. Non voglio
escludere affatto che attraverso questi filtri possano «passare» persone di
grande talento e opere di valore, visto che con altri filtri, per esempio, della
comunità estetica o ideologica, che sembrava più prossima all'oggetto, ci sono
state persone e opere che sono state oscurate, almeno pro tempore.
Ma (ecco il «ma» ) quello che passa, autori e opere, deve avere necessariamente
un alone che deriva da una rappresentazione spettacolare, quale che sia, oppure
avere l'aspetto di un oggetto straordinario che, in qualche modo, costituisce
per chi ce l'ha, o l'avvicina, o lo vede, lo conosce, uno stato sociale, una
identità superiore. Quello che «non passa» invece è l’elemento plurale del lavoro
della cultura, il costume vano e comune del lavoro dell’intelligenza e della
sensibilità, ciò che, nelle differenze, educa un costume. È questa pluralità
di filtri che concorrono a un medesImo effetto molto rigido, diviene un canone
produttivo, un sapere che orienta il fare, il progettare se stessi, l'assumere
un certo stile per riuscire a entrare nel mondo. Temo tuttavia che il premio
per questa fatica sia di breve durata, perché anch' esso è soggetto alla medesima
legge del consumo e delle regole che sono state proprie per «essere», come dire
il destino.
Gianni D'Elia, Intellettuali: quel che conta è lavorare, scrivere, testimoniare, senza mai chiamarsi fuori, pubblicato su "l'Unità" del 4 marzo 2004:
In una situazione politica come la presente, con una destra al governo così
prepotente e con intenzioni incostituzionali così dichiarate e in atto di legge,
parlare di letteratura, per uno scrittore di sinistra, è almeno un poco imbarazzante,
se non si lega subito, questo dibattito sulla crisi di opere, autori,dialogo
critico, alla contraddizione principale. Così, la deprecazione dei tempi presenti,
lanciata da Romano Luperini, e a cui già tanti hanno risposto su queste pagine,
si trova di fronte un'altra obiezione di fondo: non solo ci sono opere, e autori
che insorgono e si dichiarano, insieme alla giovane critica, ma questo fermento
si fonde a quello della società civile, dei movimenti per la pace e per la scuola,
per il lavoro, disegnando un grande girotondo d' opposizione, a cui proprio
questo giornale, sotto questa direzione ha dato voce, con particola attenzione
verso gli scrittori e gli intellettuali che si oppongono, anche come cittadini,
alla cultura del potere berlusconiano.
Dov' era Luperini, quando Tabucchi, Consolo, Eco, Francesca Sanvitale, Lidia
Ravera, Lello Voce, e tanti altri, da Moni Ovadia a Ivan Della Mea, hanno ribattuto
punto per punto, come cronisti della cultura, con le loro riflessioni e critiche
ai vari misfatti giuridici e civili di questa tremenda coalizione di potere?
Invece di riflettere sulla ripresa del dissenso intellettuali, da cui può ripartire
anche un vero dialogo sul fare letterario, oggi, si rimpiangono i tempi di Calvino
e di Pasolini, della grande letteratura, della teoria. Non bisognerebbe sprecare
più neppure una riga per un dibattito generico, sulle incapacità della prosa
o della poesia di cogliere la realtà di oggi, ma tentare di descrivere le opere
e i libri che, tentando di farlo, stanno già costruendo la nuova letteratura.
Come si fa a parlare di crisi delle opere, quando, per voler restare in una
sintesi estrema di scelta, magari ridotta a due libri, uno per la narrativa
e uno per la poesia, ci troviamo nelle mani l'ultimo romanzo di Tabucchi e l'ultimo
poema di Raffaello Baldini? Baldini racconta l'Italia di provincia, la provincia
totale della Romagna, in una lingua dialettale mista all'italiano parlato, allestendo
delle vere sequenze, dei film parlati, in cui i suoi personaggi si muovono straniati,
paradossali, mattocci, in una vera pirotecnia verbale, incalzante, comprendente
tutte le figure retoriche dell'ironia orale e del lirismo trattenuto, intensissimo,
del popolo sopravvissuto nei fonemi gallo-celtici, mischiati all'inglese delle
formule quotidiane. Nessuno come Baldini assomiglia a Céline, perché il suo
romagnolo è colto, finto parlato, e mescola scritto e parlato con la stessa
volontà espressionistica. Certo, è un Céline in cui si aggalla il riso lunare
di Buster Keaton. Anche qui, il difficile combinato di lingua letteraria e lingua
comune, partendo dal dialetto, sembra voler indicare alla scrittura la grande
risorsa antropologica del parlare tipico della nuova poesia dialettale da Loi
a Scataglini, che cambia le carte della poesia di fine Novecento, con la ripresa
dell'ipotesi neovolgare dopo la morte di Pasolini. C'è più di un motivo di riflessione
critica generale, se la poesia che riesce a parlare meglio dell'Italia di oggi
è scritta in dialetto, tra lessico e sintassi italianizzati dal parlato "naturale"
dell'omologazione: il treno Intercity (Einaudi) di Baldini corre con un personaggio
monologante che si ritrova solo, perché nessuno c'è, in quanto nessuno più ascolta
nessuno.
Sul libro di Antonio Tabucchi Tristano muore (Feltrinelli), ha già scritto su
queste pagine Roberto Cotroneo, con molta precisione. Si può aggiungere solo
un giudizio di valore ancora più alto, su quest'ope-ra specifica, che non ha
niente da invidiare alle altre di Tabucchi. Anzi, appare come l'altro, bellissimo,
Pereira, questo personaggio che sogna Tristano, morente ex partigiano, che si
chiede e chiede allo scrittore di raccontarlo, Pereira sembra andato sui monti,
è tornato, e muore, proprio negli anni in cui muore la democrazia resistenziale,
qui, soprattutto in Italia, un paese che è stato fascista, e che più dovrebbe
essere attento all'autocoscienza fascista.
Ebbene, questo racconto a strappi di memoria e di sogno, si presta proprio a
un esercizio di critica dinamica, che sia capace di registrare le scosse forti
della novità artistica, nel presente. Siamo di fronte a un poema orfico-resistenziale,
truccato da romanzo, prima di tutto. È un pezzo di bravura poetica, dove si
scombinano i generi di prosa e poesia, nel flusso di una frase musicale lunga,
per interi paragrafi, il cui oggetto intrecciato e unico è la storia della voce,
e la voce della storia.
In secondo luogo, c'è un fortissimo discorso interno di "poetica" per la ripresa
di quel dibattito ideologico, di cui si lamenta la scarsità o l'assenza: Tabucchi
indica agli altri scrittori (e dunque anche ai critici) il fondo inesplorato
del parlare. Questa volta dal lato dell'italiano misto più che di quello dialettale,
il parlare come fondamento della scrittura: il testimone del testimone è lo
scrivente-scrittore, testimone scritto di un testimone che vuole restare orale,
trascritto, neppure registrato in voce, ma in nastro di scrittura. È così, al
lettore che sia anche autore, questa pare una lezione dentesca, rovesciata:
un viaggio, dove chi muore guida chi continua a vivere, dove chi parla guida
chi continua a scrivere. Una cantica al mito (racconto) mediterraneo. Il terzo
punto è l'impegno, perché in questa storia il valore interrogato è questo: a
che valse la lotta?
Non c'è divisione, tra l'impegno pubblico dello scrittore e quello del suo personaggio:
cos' come in Pereira, Tristano pensa dentro la storia, la subisce, la agisce,
cambia. Qui, muore. Più che di miseria degli intellettuali di sinistra, che
sono se mai criticabili per una faziosità troppo interna, irrisolta, tra le
poetiche contrapposto del realismo ideologico e dello sperimentalismo linguistico,
da "Officina" al "Gruppo 63", fino a noi, si dovrebbe parlare piuttosto di miseria
del potere, e di come allungare l'opposizione letteraria, diretta e indiretta,
parlando delle opere ottime.
Giulio Ferroni, Questa letteratura depressa dal narcisismo, pubblicato su "l'Unità" del 7 marzo 2004:
La maggior parte degli interventi che sono seguiti all'articolo di Romano
Luperini su l'Unità del 18 febbraio scorso costituiscono una evidente e plateale
dimostrazione, e tanto più quanto più sono aggressivi e polemici, della sostanziale
validità di quanto in esso affermato. Alla diagnosi preoccupata e accorata di
Luperini, alla forma lucida e chiara che egli ha dato ad una sensazione di stanchezza
e di vuoto sentita oggi da molti e dai più variamente confessata nelle conversazioni
quotidiane, si è risposto quasi sempre con indignata meraviglia, con tutta una
gamma di difese di se stessi, dei propri amici, di recenti esiti editoriali,
di feconde iniziative politico-culturali, del sacrosanto «ruolo» intellettuale,
ecc.. Insomma un riflesso corporativo, disposto lungo la gamma che va dalla
più onesta e ragionata difesa dell'operare in buona fede al più dispiegato e
sfrontato narcisismo autoesaltatorio: ben pochi hanno chiamato in causa la complessità
della situazione e ben pochi si sono interrogati sulla sostanza del discorso
di Luperini, sui «contenuti» che sono oggi sul tappeto, sulla capacità propria
e altrui di rendere veramente conto del presente, della sua complessità, delle
sue contraddizioni.
Non sono mancate urla e rivendicazione che, a guardarle con un certo distacco,
appaiono irresistibilmente comiche, segnate da un’ingenua bambinesca furia autopromozionale,
con profluvie di ingiurie in più direzioni, con exploits di citazioni di libri,
libracci, libercoli di sodali e contubernali, con indicazioni di grandi prospettive
(rivoluzionarie?) affidate a verbucci/verbicini personali: in una apoteosi ascensionale
si sono svolti gli interventi uni e trini del gruppo Benedetti-Scarpa-Moresco,
gridante vergogna a presunti padri e a presunti potenti, colpevoli in primis
di non ascoltare le loro accorate rivendicazioni. Si è avuto un gridare: «ci
sono», o “ci siamo", segno di una preoccupante incapacità di riconoscersi nella
corrente, di essere davvero ambiziosi e «radicali» (e si può essere ambiziosi
e radicali solo se si è capaci di uscire fuori di sé, di portare la critica
e la conoscenza anche dentro di sé, e se le proprie ragioni valgono qualcosa
di più che un semplice «starci»).
È proprio vero, come suggerisce Cordelli, che Berlusconi è dentro di noi: è
vero che il gridare e gridarsi, il non vedere, il riavvolgersi su se stessi,
sono segni della sterilità della cultura italiana, della sua attuale incapacità
di guardare al senso del presente, della sua subaltemità a modelli «mediatici»
e pubblicitari, prigioniera di consorterie e giochi di squadra che escludono
qualsiasi vera “cura” per lo stato del mondo, per il suo destino. In questo
vario gridare, la letteratura conferma la sua angosciante marginalità: si chiude
volontariamente, ma senza avvedersene, in un piccolo recinto di rivendicazioni
narcisistiche che cancellano totalmente ciò che veramente sta di fuori, la misura
della realtà difficile in cui tutti siamo presi. Possibile che non ci si renda
conto di quanto siano irrilevanti le proprie parole e i propri scritti nel quadro
della comunicazione attuale, di quanto siano evanescenti le nostre scelte e
le nostre stesse polemiche? Luperini ha indicato «cose», ha ricordato alcuni
dei dati sconvolgenti della presente situazione del mondo: da critico ha cercato
di far percepire il senso del panorama globale. Ci si dovrebbe domandare allora
come ci si colloca di fronte a quel panorama, quali tentativi si fanno per capirlo,
per registrarlo, per rovesciarlo, per contestarlo, per guardarlo da angolature
anche diverse da quelle di Luperini. Invece ci si viene a lamentare del fatto
che i nuovi romanzi nono vengano recensiti, che i giovani ingegni non vengano
riconosciuti, che la buona cultura di sinistra non sia applaudita. Perché non
cerchiamo di capire come mai siamo giunti a questa situazione, quali errori
sono stati fatti quante cose non sono state viste e non sono state capite (qualche
volta, purtroppo, anche da alcuni dei grandi intellettuali di cui Luperini lamenta
la mancanza)? Come siamo arrivati a questa asfittica società letteraria e intellettuale?
È davvero tutta colpa della televisione e di Berlusconi? O non forse alcune
derive sono state sostenute e favorite dalla stessa sinistra e dai suoi intellettuali?
Non c'era già un po' di berlusconismo in tanto narcisismo politico-intellettuale,
in tanto culto dell'apparenza, del successo, dell'effetto pubblicitario, della
trasgressione provocatoria, del- l'allegro cinismo mediatico, del nichilismo
desiderante, di cui si sono nutriti tanti intellettuali più o meno «di sinistra»?
Non si è diffusa negli ultimi decenni una concentrazione insieme aggressiva
e vittimistica su scelte parziali e locali, un'abitudine a guardare il mondo
dalla finestra di casa, un contemplarsi l'ombelico, che hanno impedito di percepire
davvero, in profondità, le terribili trasformazioni del mondo. E i tre film
«di sinistra» tanto esaltati del 2003, di Giordana, Bellocchio, Bertolucci,
non rappresentano proprio questo vuoto e inaridimento, questo deprimersi e guardarsi
allo specchio e leccarsi le ferite (mi era già capitato di parlarne in un articolo
su Reset dello scorso dicembre)? È questo che lamenta Luperini, e non possiamo
dargli torto, anche se non possiamo dimenticare certe presenze fraterne, le
voci di alcuni «padri» che ancora ci hanno aiutato e ci aiutano a sentire il
malessere di questa situazione, a «resistere» con la pur pallida speranza che
ci sia una strada per uscirne (penso, ad esempio a Zanzotto, a Giudici, a Consolo,
e a pochi altri),
Perché non si discute di questo? Di tante cose e di tante illusioni che sono
crollate, ma che continuano a tenere campo quasi per forza di inerzia? Una letteratura,
un mondo intellettuale e artistico veramente vitali dovrebbero saper prendere
di petto lo stato dolente del mondo: farci vedere ciò che non riusciamo a vedere,
farci capire ciò che non riusciamo a capire. Questo è ciò che un critico come
Luperini, può legittimamente chiedere agli scrittori e a se stesso: se ci sono
scrittori veramente ambiziosi, giovani e meno giovani, devono pur essere in
grado di confrontarsi con richieste come queste, piuttosto che lamentarsi del
fatto che non si parli di loro!
P.S. Aggiungerei una piccola postilla sulla questione dell'Università, dove
Luperini, il sottoscritto e tanti altri si trovano ad insegnare: e vorrei far
notare che la perdita di prestigio delle Facoltà umanistiche e l’impoverimento
della didattica (imposto da una riforma che ogni giorno di più si rivela sbagliata:
un altro degli errori recenti della sinistra) stanno facendo precipitare verso
il basso la formazione di tipo letterario e artistico, parcellizzano e frantumano
i dati disciplinari, fanno evaporare sempre più il nesso tra le singole tecniche
e quel contesto globale, trai singoli contenuti e il quadro problematico del
presente. Su questa china l'università si impoverisce sempre più: e si prospetta
all'orizzonte, per le nuove generazioni, l'allargarsi di un vuoto ulteriore,
se possibile ancora più grave di quello presente: sarà una preoccupazione senile
quella di chi afferma la necessità di un cambiamento radicale, che può sorgere
solo da una spregiudicata analisi della situazione, non certo dalla semplice
difesa di ciò che si è fatto negli anni passati, dal compiacimento per quanto
si è bravi, dall'indignazione per gli orrori berlusconiani? Di questo forse
si discuterà in altra occasione: ma intanto occorre tener ben presente che la
riflessione sullo stato depresso del mondo letterario Italiano dovrebbe andare
di pari passo con quella sullo stato depresso della nostra università, delle
nostre scuole, dell’insieme dei processi di formazione e di comunicazione
Antonio Moresco, In mare aperto, pubblicato su Nazione Indiana, il 9 marzo 2004:
Rispondo in ritardo alle reazioni suscitate (su l'Unità, i Miserabili, ecc.)
dal mio e da altri articoli apparsi sull'Unità, perché ero lontano dall'Italia.Ancora
una volta, in risposta a posizioni di dissenso, sono scattati, sui giornali
e in rete, chliché e caricature personalizzate e preconfezionate, in un fronte
che raccoglie le figure più variegate e più inaspettate. Così è successo - prima
e più ancora che a me - ad Aldo Busi, Tiziano Scarpa e Carla Benedetti, assalita
con un'ansia demolitiva e denigratoria del tutto particolare. Alle argomentazioni
messe in campo - ciascuno a suo modo e con la propria individualità e libertà
- si è saputo rispondere solo dandoci dei narcisisti, con deformazioni e sarcasmi
ma guardandosi bene dall'entrare nel merito delle cose realmente scritte. Se
si prova a obiettare che la descrizione mortuaria della realtà culturale, artistica
e spirituale di questi anni fa acqua da tutte le parti succede il finimondo,
chi si permette di farlo non può che essere un esibizionista e un mascalzone.
Si sono affrettati in molti a scendere in difesa di questi annunci funebri.
Strana epoca la nostra, strano paese il nostro. Non so se è mai successo che
un'intera casta culturale si sia trovata così accomunata nella difesa di una
simile trincea e di un simile vicolo cieco.
Continua
a leggere
Giuseppe Caliceti, I vecchi prima o poi muoiono (non solo loro, per la verità), pubblicato su Emilianet, 10 marzo 2004:
Romano Luperini ha ragione! Non ci sono più gli Intellettuali di una volta! Certo! Anche Roberto Cotroneo ha ragione! Non ci sono più i Critici Letterari di una volta! Anche Mauro Covacich ha ragione! Gli Scrittori in Italia non sono più quelli di una volta! Hanno tutti ragione, ci mancherebbe! Neppure le stagioni sono più quelle di una volta, ammettiamolo! Neppure i bambini! Neppure le case editrici! Neppure i partiti! Neppure il cinema! Neppure la politica! Neppure l'Italia è più quella di una volta! Neppure il mondo in cui viviamo! Ecco, l'ho detto! E adesso? Il tempo passa, questa è la verità! Bisogna rassegnarsi! Passa! Nel bene! Nel male! Nulla è più quello di una volta! Dispiace, si capisce! Soprattutto quando qualcuno mette al presente una bella croce sopra! Anche nel segreto dell'urna, magari! Liquidando tutto e tutti! Facendo di ogni erba un fascio! Il vecchio vizio! Ma ci si può consolare, per carità! Perchè 'ste vecchie e nuove polemiche sugli intellettuali non passano mai d'attualità! Evviva! Evviva! C'è sempre 'sta nenia noiosa e melmosa! C'è sempre 'sto entusiasmo di fondo! Dev'essere la parola "intellettuale" che mette la frenesia addosso! C'è sempre 'sto rimpianto di un passato che di buono ha soprattutto d'essere passato, mi pare! C'è 'sto frustrante e frustrato rimpianto di un'aura e di un ruolo e di una voce che io non ho mai visto o capito! Di cui solo ho sentito parlare! E male, direi! Gli scrittori e gli intellettuali che mi appassionano di più sono sempre stati ai margini! Fraintesi, per lo più! Deve essere questo! E non se la menavano più di tanto con 'ste nostalgie! Sono venuti! Se ne sono andati! Hanno scritto quello che avevano da scrivere! E' la vita! Il tempo passa! Non è colpa di nessuno! Da sempre nascono nuovi scrittori! E' una questione biologica, tra l'altro! I vecchi prima o poi muoiono! Fortunatamente c'è qualcuno che li rimpiazza! I libri restano! In qualche modo il mondo va avanti! Sempre stato così! Non ci dovrebbe essere nulla di cui scandalizzarsi! Anzi, bisognerebbe essere contenti! Invece si incazzano tutti! I vecchi anchormen del paleolitico culturale, poi! Per cosa non si capisce bene! Giustificarci? Tu? Noi? Chi? Perché? Per non essere organici a cosa? Per essere inorganici rispetto a chi? Giustificarsi per aver scritto un libro invece che un altro? Per essere nati nel tempo e nel luogo in cui siamo nati? Ci mancherebbe! Al mondo oggi c'è ben di peggio, se qualcuno ha voglia di lamentarsi! Anche un intellettuale di razza! Il mondo in cui viviamo è quello che ci avete preparato, né più né meno! Anche quello culturale! Prendetevela con voi stessi, se proprio volete prendervela con qualcuno.
Raffaele Simone, L’aria che tira fa male alla creatività…, pubblicato su "l'Unità" del 10 marzo 2004:
Non sono uno scrittore né un esperto di letteratura: gli unici miei titoli
di affinità con quanti sono finora intervenuti nella discussione provocata da
Romano Luperini stanno nel fatto che considero la letteratura e l'invenzione
intellettuale tra i maggiori indicatori della speranza di futuro di un paese,
e queste due cose mi stanno a cuore. Se mi spingo a dire la mia, quindi, lo
faccio per il timore, che è stato suscitato in me da più di uno degli interventi,
che il dibattito si intristisca in una disputa tribale: critici contro scrittori,
universitari contro non-universitari, integrati contro intellettuali off. Sarebbe
un peccato, oltreché una mesta dimostrazione che il declino a cui Luperini allude
è più ampio di quanto lui stesso descriva.
Secondo me, il tema lanciato da Luperini non è stato raccolto a dovere dai suoi
interlocutori, che mi paiono spinti quasi tutti da un furor di cui non conosco
l'origine. Provo quindi a guardare le cose dall' esterno. Mi pare che Luperini
abbia proposto due temi: anzitutto, che gli intellettuali italiani stanno battendo
in ritirata rispetto al pulsare (anche patologico) del mondo esterno (i modi
del potere, le inquietudini della popolazione, l’impoverimento generale, la
sfiducia dei giovani, la sfrontata teorizzazione dell'esser ricchi...); e poi
che la qualità dell'invenzione (specialmente letteraria e artistica, quella
che i francesi chiamano la création) è andata inesorabilmente deperendo
negli ultimi anni. I due temi non sono logicamente saldati: ma la loro somma
dà un totale preoccupante.. soprattutto se la prendiamo come indicatore della
vitalità dell'intelligenza del paese che chiamiamo ancora Italia.
Il dibattito ha però subito sviato, trasformandosi in disputa di parrocchia
e di provincia, assai malinconica agli occhi di un outsider come io sono. Credo
invece che bisogni fare ogni sforzo per riportarlo a un livello più globale,
che lo renda utile per capire che cosa succede oggi all'Intelligenza Italiana
(con tanto di maiuscole). Per far questo, occorre dargli una cornice che sia
comparativa e che non si limiti alla letteratura e alle arti.
Secondo me la cornice si costruisce elaborando tre giudizi: primo, gli intellettuali
stanno arretrando rispetto alla realtà del paese; secondo, il livello generale
della creazione artistica e dell'innovazione intellettuale in generale si è
abbassato e si abbassa ancora; terzo, questi fenomeni sono, se non originati,
certo favoriti dall'aria del tempo, dall'esecrabile Zeitgeist che spira in questo
paese... Provo ad argomentare questi tre passi.
Primo. Il tradimento degli intellettuali. L'E. B. (Era Berlusconi) ha portato
allo scoperto un'antica vocazione dei nostri intellettuali, che è quella a fare
opposizione solo quando quest'attività non sia troppo rischiosa o impegnativa,
e, se occorre, a tradire. Certo l'intellettuale non è un leone né è tenuto ad
esserlo, ma non è neanche obbligata a fare come il borghese di cui parla Balzac,
che «si appiattisce sempre di più sorto la suola che lo sta schiacciando”. Se
si tolgono pochi casi numerati, il poco di opposizione che si fa in Italia non
proviene certo da intellettuali (universitari o no), ma da alcuni giornali (come
l'Unità) e da non troppi politici. In tempi duri (come questi), l'intellettuale
italiano, come il poeta di Yehoshua, «continua a tacere».
Secondo. Il declino della création. Di questo terna parlo solo dall'esterno
(da lettore e spettatore di prodotti d'arte e d'intelligenza), ma mi pare che
l'amara analisi di Luperini sia perfettamente giusta. L'invenzione italiana
nelle arti più diverse dice poco dell'Italia e degli italiani di oggi, e per
giunta è di basso livello globale. Anche questo non mi pare un fatto nuovo,
ma nell'E. B. si è drammaticamente accentuato: la paura e la censura sconsigliano
di darsi troppo da fare. Se cercate nella letteratura o nel cinema italiani
una messa in scena convincente (anche solo indiretta) e magari ben fatta di
fenomeni capitali della storia recente (il terrorismo, il golpismo, la corruzione,
la devastazione del paesaggio, la speculazione edilizia, la bruttezza delle
città, le inquietudini sociali, l'immigrazione, l'asfissia da media, la crisi
dell'industria, la stupidità aleggiante sul paese, la disfunzione generale,
la globalizzazione - insomma "il declino d'Italia”), troverete poca roba, per
lo più minimalista e fatta in casa. Non basta appellarsi ai grandi film di Francesco
Rosi per dire che il cinema italiano si è occupato di mafia o di speculazione
edilizia; la letteratura è rimasta ancora più indiertro. In fondo, uno dei pochi
meriti della Meglio gioventù (che a me è sembrato un'opera piuttosto modesta)
è quello di offrire, a chi avesse perduto tutti i passaggi essenziali della
storia italiana recente, una specie di enciclopedia sommaria di quegli anni
(ci mancano solo, se non sbaglio, i cattolici di sinistra e lo strutturalismo).
Questo fenomeno, chiarissimo già agli italiani, diventa ancora più netto agli
occhi degli stranieri che amano, malgrado tutto, questo paese: a loro è difficile
spiegare come mai l'Italia non produce più (quasi) niente d'interessante, d'importante,
di perturbante...
Terzo. Lo Zeitgeist. Se sono veri i primi due passaggi, bisogna domandarsi come
mai le cose vadano proprio così. lo credo che il declino segnalato da Luperini
sia dovuto in parte notevole a un vizio inveterato, ben conosciuto, della nostra
création, una sorta di disturbo congenito, che la globalizzazione ha
accentuato: un'asfissia creativa, che impedisce il vasto respiro e rende difficile
ancorarsi al mondo esterno. Ma la più gran parte della responsabilità sta nell'ambiente
circostante: intendo dire nel profondo, intestino, inveterato anti-intellettualismo
della nostra società, che sottrae all'attività intellettuale avanzata il suo
terreno e i suoi enzimi.
Ora, questo movente è stato captato e amplificato a dismisura dalla destra berlusconiano-leghista,
che ne ha fatto uno dei suoi cavalli di battaglia e lo applica in tutti gli
ambiti possibili. Borges ha scritto che sotto le dittature fiorisce la metafora;
non aveva previsto la «tirannide mediatica», sotto la quale fioriscono quasi
solo le volgarità, la stupidità e le ingiurie. Non è solo il romanzo italiano,
cari amici, che è in difficoltà: la tempesta anti-intellettuale sta sconquassando
la scuola, l'università, la ricerca, l'editoria, il cinema, il teatro, la musica,
i media, la televisione, la pubblicità, insomma tutto ciò che abbia a che fare
con l'intelligenza e la sua coltivazione. Perché? Semplice: intelligenza significa
giudizio, e giudizio significa critica. Nulla di più pericoloso, per un potere
sordo e cieco alle esigenze del paese.
Del resto, l'Italia non è sola in questa tormenta. In Francia da qualche settimana
si è scatenata un'amplissima protesta (avviata, pensate, dalla rivista di musica
e televisione Les Inrockuptibles e ripresa poi da varie testate) contro «la
guerre à l'intelligence» o «le nouvel anti-intellectualisme d'Etat» che il governo
Raffarin sta fomentando su tutti i fronti. Questa compagnia ci conforta, ma
ci fa anche capire la differenza: in Francia decine di migliaia di persone,
illustri e no, si muovono in difesa dell'Intelligenza Francese; in Italia sfrigola
stizzosa e marginale la disputa tra gruppi e sottogruppi...
È la destra, bellezza, che frena la création. Cerchiamo di far qualcosa,
piuttosto che dissiparci in dispute di parrocchia.
Enrico Palandri, Cosa nasce dalla "scomparsa" dell'Italia?, pubblicato su "l'Unità" del 13 marzo 2004:
Andrea Cortellessa, Avanguardia o cultura aziendale?, pubblicato su "l'Unità" del 17 marzo 2004:
Non si dorrà Romano Luperini se il suo intervento funzioni, più ancora che per la propria sostanza, come reagente e cartina di tornasole. L'autore del Dialogo e il conflitto sa come la storia della letteratura moderna sia fatta soprattutto di reazioni e scosse di assestamento. Il suo lamento sul declino dello scrittore come intellettuale ha dunque valore di test. Se qualcuno nutrisse dubbi, sull'autorevolezza intellettuale dei narratori alla moda, gli basteranno certe reazioni scomposte di questi giorni per"farsi un'idea dello stato delle cose.
Riguardo a Tiziano Scarpa e Antonio Moresco molto ci sarebbe da dire. Sono scrittori che hanno all’attivo libri più che notevoli (non i rispettivi ultimi), e in questo senso io stesso avrei fatto anche i loro nomi, se in questione fosse lo stato dell'arte narrativa oggi in Italia. Ma la questione era, è, ben altra. Il loro riflesso condizionato, e la somiglianza non solo retorica fra i loro interventi, sono eloquenti. Luperini prende le mosse dal '75. Di quell'anno è anche un saggio geniale di Glauco Viazzi, Il fu turismo come organizzazione, che spiegava come parte integrante del modello marinettiano di cultura fosse la struttura aziendale: con i suoi organigrammi (liste di eccellenza, liste di proscrizione), il suo senso della concorrenza (annichilimento del diverso dalla sua coazione pubblicitaria (occupazione di tutti gli spazi comunicativi possibili), il suo spirito di corpo (sistematica contestazione reciproca). Quello dell'azienda capitalistica moderna si aggiunge agli altri modelli metaforici dell'avanguardia: il partito politico (manifesti, maggioranze e minoranze), l'esercito (gerarchia, combattività, spietatezza virile), la chiesa (liturgia, dogmatismo, scomuniche).
A partire dagli anni Settanta molti critici hanno descritto in mondo simile l'ultimo movimento d'avanguardia che in Italia abbia avuto consistenza effettuale, il Gruppo 63. Ma nemmeno i revisionisti più reazionari negano che il Gruppo affiancasse, al terrorismo autopromozionale delle famigerate (e non rimpiante) «Liale del '63», autentiche innovazioni formali, radicale disincrostazione di codici, possente apertura internazionale. E soprattutto, per dirla in termini nietzscheani, un'inedita capacità clinica dell'esistente (quel realismo dell'avanguardia sul quale ha sempre insistito Edoardo Sanguineti). Per valutare storicamente quell'episodio occorre tenere conto tanto della carica di innovazione e interpretazione (diciamo l'avanguardia) che della gregarizzazione settaria (diciamo l'avanguardismo).
Uno dei fenomeni più inquietanti dell'odierna scena intellettuale è proprio l'avanguardismo senza avanguardia del quale Moresco e Scarpa, anime militanti del gruppo di Nazione Indiana, sono massima incarnazione. Che costoro non abbiano alcuna capacità clinica dell'esistente lo avverte chi scorra quel campionario di gesticolazioni ideologicamente ambigue e intellettuali mente velleitarie che è il volume Scrivere sul fronte occidentale (qui citato da entrambi). Che costoro adottino le tattiche dell'avanguardismo lo dicono i loro interventi in risposta a Luperini: terrorismo monitorio e ieratico-apocalittico (finale del pezzo di Moresco), tabula rasa del passato e freudiana negazione dell'Edipo letterario (finale del pezzo di Scarpa), ma soprattutto (ossessivo in entrambi) tambureggiante battage autopromozionale-aziendale dei più immediati clientes (che essi citino anzitutto se stessi e i propri libri non è dissacrazione «galateale»: è tic rivelatorio). Che costoro, in perfetto spirito aziendale, tutto contestino (padri padrini padristi) tranne chi detiene realmente le aziende cui prestano la propria opera (i padroni anzi il padrone) lo constata chi ne segue il lavoro culturale. Ma che costoro non abbiano nemmeno (più) la capacità d'innovazione che avevano prima di «organizzarsi» aziendalmente non sono io a dirlo. Sono loro. Moresco non fa mistero del proprio detestare le «cosiddette Avanguardie» (ma già nel suo libro L'invasione era contenuta un'ineffabile stroncatura di Artaud... come tempo fa era toccato leggere severe reprimende a Beckett…); Scarpa, in un dibattito sulla lingua della narrativa, a Milano un paio d'anni fa (gli atti sono da poco usciti per la Fondazione Corriere della Sera), fa ammenda della sua produzione giovanile (il riuscitissimo Occhi sulla graticola) sostenendo che non si può più cercare l’“identità attraverso uno scarto” e che “gli scrittori italiani che puntano sulla differenziazione nella lingua giocano una partita persa”. Dove altro uno scrittore posa agire, se non nella lingua, Scarpa non lo spiega.
Potremmo provare a capirlo tornando agli anni di cui parla Luperini. Lo scrittore-intellettuale che portò le proprie posizioni al parossismo, al calor bianco retorico e politico, fu il Pasolini «corsaro» e «luterano». Fu lui a inaugurare il cortocircuito fra critica al potere costituito e usurpazione di quello stesso potere (demonizzare la borghesia italiana e i suoi partiti, cioè, scrivendo sul suo giornale, il Corriere della Sera). Fu lui a enunciare, e in molti casi a performare, la potenza clinica del paradosso, lo scandalo del contraddirsi. Ma quella rottura - la stessa che oggi un'altra colonna di Nazione Indiana, Carla Benedetti, fuori tempo massimo fa propria - ha segnato un punto di non ritorno. Il postmoderno in Italia non trionfa solo con Le città invisibili - libro la cui formidabile valenza politica, obliqua e allusiva, può suggerire come persino oggi siano possibili gesti artistici di profonda valenza extra-estetica: solo, com'è ovvio, in forme diverse dal passato (quanto dal passato è diverso il nostro presente). Il primo e più radicale eversore del moderno è proprio Pasolini. Rivoluzionati dalle fondamenta, strategia argomentativa e ruolo sociale dell'intellettuale, dopo quella sua stagione estrema, non sono più stati gli stessi. Non è un caso che chi ne raccolse il testimone sulle colonne del Corriere fu, scrittore e critico grandissimo ma intellettuale pernicioso, Giovanni Testori. Non è un caso che da allora gli scrittori vengano convocati, dai giornali «aziendali», solo come ineffettuali enunciatori di eleganti paradossi, audaci sofismi, «sparate» orchestrate pour épater. Insomma: come c'è un avanguardismo senza avanguardia, oggi è diffusissimo un pasolinismo senza Pasolini. Del resto mi pare dicesse qualcuno che la storia si ripete sempre due volte: la prima in forma di tragedia. La seconda in forma di farsa.
Angelo Guglielmi, Le convergenze parallele tra arte e realtà, pubblicato su "l'Unità" del 20 marzo 2004:
La denuncia di Luperini sta provocando una serie di reazioni che si intorcinano in se stesse senza trovare un'uscita. Il nodo rimane stretto. C'è chi dissente (e sono i più) opponendo l'importanza del proprio lavoro e opere (ma come ci sono io!) e chi consente dando tuttavia la colpa delle nostre disgrazie - del vuoto di presenza degli intellettuali (scrittori, registi, critici) oggi in Italia - al compromesso storico o comunque agli errori della sinistra (alla loro imprevidenza e dabbenaggine). E poi c'è la televisione che ha egemonizzato la comunicazione, invaso tutti gli spazi della comunicazione chiudendo la strada a ogni altra voce oppure inquinandola fino a travisarla e esporla al falso. Non smettiamo mai (ma è l'abitudine dei colpevoli) di dare agii altri la responsabilità delle nostre colpe e {forse) pene. È così difficile dire (certo che è difficile) che oggi Calvino., Pasolini, Volponi, Gadda, Contini, Debenedetti, Fellini, Antonioni (gli intellettuali che Luperini ci sfida a paragonare con quelli di oggi) non hanno autori (commentatori) per così dire loro pari grado per impegno, creatività, consapevolezza del tempo, capacità di d'indirizzo, autorità di stile e coscienza morale? Il tempo ha sempre proceduto per momenti luminosi e fasi di buio, questa nostra è un'età smorta, dove prevale il valore medio che si sa non buca e incide. Noi viviamo ancora nel secolo che ci siamo appena lasciato alle spalle e quel secolo (il '900) ha consumato da tempo la sua creatività già altre volte mi è capitato di dire che la creatività di un secolo non si spalma in maniera proporzionale su ognuno dei decenni in cui scorre ma si concentra in picchi che per il '900 sono stati gli anni dieci, gli anni trenta e gli anni sessanta. Poi è morto. E noi soffriamo ancora di quella morte. Il nuovo secolo non ha ancora mostrato le: sue idee, i suoi sogni, il suo coraggio. Qualcuno non è d'accordo e dice che il nuovo secolo si è già mostrato e come! E lo ha fatto con l'11 settembre. Se è così (e chissà potrebbe anche essere così rimane certo che scrittori e artisti non danno segni di avere colto la novità e fame motivo di nuovi pensieri e linguaggi. E qui il discorso potrebbe finire. Ma in realtà non finisce perché è vero che i nostri intellettuali oggi soffrono di una crisi di identità di cui si può fino a un certo punto far loro colpa (è come incolpare i vecchi di essere vecchi) ma è anche vero che i tempi neri e duri in cui viviamo (con un presidente del Consiglio che si fa gli affari suoi e il paese che va a rotoli) chiedono (anzi pretendono) un diverso impegno, una reattività più efficacie e pronta da parte di tutti e, in maniera specifica, da coloro che per cosi dire l'intelletto lo adoperano per mestiere. Davanti allo scempio che giorno dopo giorno chi ci governa fa della nostra vita gli scrittori hanno l'obbligo di farsi sentire. E qui si arriva al nodo del pettine. Gli scrittori infatti parlano e hanno sempre parlato con le loro opere e quanto più alto è stato il loro discorso poetico e di verità tanto più hanno inciso sugli aspetti sociali e politici della realtà alla quale appartenevano. Ma con la nascita del moderno e a cominciare da metà dell'800 si è verificata una scissione, un divorzio incolmabile tra realtà e esperienza estetica condannando ciascuna delle due entità (il mondo dell'arte e quello della società) a vivere in compartimenti separati. Questo invero non ha impedito agli artisti della seconda metà del '900 (verso i quali va la nostalgia di Luperini) di riuscire a coniugare impegno estetico e sensibilità civile e dunque di marcare una loro forte presenza pubblica e di riconoscimento presso i contemporanei. Si pensi a Antonioni (porto l'esempio di un film contando sulla maggiore popolarità del cinema) non vi è forse artista più freddo e disimpegnato di lui (tutto risolto in una sofferenza estetica) che tuttavia con L'avventura scoprendo una nuova dimensione dell'esistenza, alla quale non è estraneo il valore dell'ambiguità ha certo favorito la manifestazione di nuovi costumi e i modi di vita diffusa tra gli italiani negli anni sessanta. E molti altri esempi potrei portare anche più scandalosi (più ricchi di forza rivelatrice). Ma Antonioni era Antonioni e faceva parte di quei tempi (la cui scomparsa allarma Luperini) in cui gli scrittori con 1e loro parole, pur chiuse e di difficile comprensione, parlavano del mondo e sul mondo, e il mondo non esitava a trame vantaggio. Oggi gli scrittori schiarendo le parole parlano di sé e, per quanti sforzi facciano, non riescono a uscire dai confini pur nobili della specifica arte o genere in cui si esercitano: cos1 in loro il divorzio tra realtà e esperienza estetica si fa più drammatico, anzi diventa una sentenza definitiva dalla quale non hanno scampo, escludendoli dalla società che non li riconosce. E di qui quel voto che Luperini così gravemente lamenta (sentimento al quale è difficile non consentire). Ma questa situazione, auguriamoci affatto provvisoria, di totale estraneità tra intellettuali e mondo è pur insopportabile. Occorre trovare un qualche accorgimento per superarla. E alcuni dei nostri scrittori artisti (forse i migliori) lo hanno trovato hanno deciso di affiancare al loro mestiere di facitori d'arte (di scrittori di romanzi o realizzatori di film) un'attività distinta e parallela di impegno diretto nella politica (o comunque nella vita civile), in modo da saltare il gap (oggi forse incolmabile) che oramai esiste tra arte e società. Così Furio Colombo è andato a dirigere il maggior quotidiano d'opposizione, Moretti dopo averli creati è diventato il capo (almeno invocato) del partito dei girotondini, Tabucchi insieme a Giovanni Sartori è il più critico ed efficace degli editorialisti (altro che Panebianco o Galli della Loggia) che appaiono sui giornali italiani, il filosofo del pensiero debole guida una lista per le prossime elezioni europee. Credo che abbiano ragione. È forse l'unico modo in cui oggi uno scrittore (un artista), dribblando la solitudine in cui è chiusa la sua opera, può continuare a essere (nell'immediato) interessante per la società in cui vive.
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