LETTERATURA E REALTA'

Riportiamo qui di seguito per tutti gli interessati le numerose puntate del dibattito avviato dall'articolo di Mauro Covacich "Ho le vertigini da fiction" (apparso su "l'Espresso" del 15 gennaio scorso).
Covacich si lamentava per l'assenza della cronaca, della politica e dell'attualità in tutta una generazione di scrittori italiani


A OGNUNO QUEL CHE E' DI OGNUNO, A TUTTI QUEL CHE E' DI TUTTI:


Mauro Covacich, Ho le vertigini da fiction, pubblicato su "l'Espresso" del 15 gennaio 2004:

La nostra è un'epoca piena di meraviglie. Il cielo si è abbassato a tal punto che gli aerei entrano nelle costruzioni più alte. Maestri di scuola si vestono di tritolo e salgono sugli autobus per farsi brillare. Attori diventano governatori. Cantanti diventano primi ministri. Presidenti della Camera diventano conduttrici televisive. Nella Rete c'è un kit fai-da-te per abortire. In tv, sul satellite, c'è un programma che segue dal vivo gli intubamenti, le amputazioni, le de- fibrillazioni di una giornata al pronto soccorso di un grande ospedale, prendendo spunto da una famosa serie di telefilm. Ogni cosa per essere reale dev'essere trasmessa, ma non solo - questa ormai è roba vecchia - anche ogni esperienza di vita è reale solo se pensata da chi la vive coi ritmi, le sequenze e le inquadrature di una fiction. Il concetto “la vita come un romanzo" ha cambiato più volte faccia fino ad arrivare a “la vita come un reality show": e così si è imposto, è sceso in lingue di fuoco sulla gente, l'ha coperta di finzione. lntanto, modelli etici di scala planetaria come Bono Vox e Pavarotti gridano motti copiati dal libro di catechismo. Intanto splendidi ottantenni corrono maratone, desiderano e ottengono erezioni - desiderano e ottengono erezioni prolungate; e si avvicina il momento in cui non moriremo più, in cui l'heideggeriano essere-per-la-morte non sarà più la condizione esistenziale dell'uomo. Intanto il movimento giovanile antagonista più imponente dai tempi del '68 per far sentire le proprie ragioni contro lo sfruttamento del pianeta ha bisogno degli organi di informazione del sistema che contesta, così come quello stesso sistema vende jeans e giubbotti griffati sfacciatamente ispirati allo stile "no global". Intanto un signore per bene: tutti gli identikit ne sottolineano il conformismo, la normalità; un signore che non si batte per niente e contro nessuno, confeziona da nove anni minuscole bombe con la cura e la dedizione di un mastro fornaio, poi le piazza nei supermercati o sotto gli ombrelloni delle spiagge friulane. Eccetera eccetera.
Perché gli scrittori italiani si sottraggono a tutto ciò? Perché lo ignorano mentre raccontano le loro storie? Ogni volta che qualcuno mi pone domande del genere, di solito succede al terzo quarto intervento alle presentazioni dei libri, ho un vuoto allo stomaco. Sì, lo ammetto, una specie di vertigine, un po' a causa della complessità dell'argomento, un po' a causa del fatto che io, quelle domande, le con divido. Cominciamo dalla complessità. Tra le fortune che ho (mi ritengo un uomo piuttosto fortunato) una è senz'altro quella di poter frequentare alcuni dei più bravi scrittori che vivono in Italia. Vado al mare con Diego Mainardi, al cinema con Gian Mario Villalta. Mangio la pizza con Tiziano Scarpa, Dario Volto lini, Romolo Bugaro, Giulio Mozzi, Roberto Ferrucci, Marco Franzoso, Tullio Avoledo. A Roma dormo da Niccolò Ammaniti, giro in Vespa con Sandro Veronesi. Lo dico solo perché mi crediate, so come la pensano questi scrittori. Ebbene, sono tutti morbosamente, famelicamente avvinti al presente, tutti con gli occhi puntati sul mondo. Molti di loro sono veri e propri esempi di militanza letteraria. Subito dopo 1'11 settembre si sono autoconvocati per discutere sulle prospettive della scrittura, come dire, alla luce dei fatti accaduti. Curano un sito (www.nazioneindiana.it) che non stacca mai la presa sulla realtà. Insomma non sto parlando di scrittori che raccontano di alleva tori di bachi da seta dell'Ottocento o che srotolano le infinite avventure di un ispettore siciliano. Non sto parlando di scrittori che fanno un passo indietro e dicono io scrivo noir, faccio letteratura di genere, sono un artigiano. Né di quelli che scelgono la memorialistica, il romanzo storico o altre forme testuali rette dall'idea che lo statuto dell'arte preveda un allontanamento dal tempo presente. No, sto parlando di gente che sente il mondo attuale come l'unico interlocutore, un interlocutore meraviglioso ma, direi, abbastanza marziano, con cui far dialogare il proprio vissuto. lo partecipo ogni volta che posso alle loro iniziative e vi assicuro che]e analisi sviluppate in quelle occasioni sullo stato attuale delle cose spesso hanno poco da invidiare a una discussione su "Micromega".
Ma, oltre al volume di fuoco decisamente significativo, è una questione di sensibilità, o meglio, di sensorialità, che li mette sullo stesso piano degli altri grandi scrittori contemporanei, persone in grado di captare, della cosiddetta quotidianità, frequenze ultra-soniche, gamme d'onda pressoché impercettibili. Ogni volta che sono con loro, mi chiedo perché l'Italia non abbia ancora espresso il proprio Wallace, il proprio Houellebecq, il proprio Pelevin, il proprio Palahniuk, esagero, il proprio De Lillo. Gli occhi, le voci, le menti ci sarebbero tutte. E anche le intenzioni, ve lo garantisco. Capite la complessità cui accennavo? lo per primo mi sento tradito dai loro libri, dai miei libri. Mi pare di essere caduto nello stesso equivoco di Totò in "Totòle Moko": i banditi credono che lui possa essere un degno sostituto del boss, Totò crede che la banda suoni, faccia musica, come lui a Napoli. Si sbagliano da entrambe le parti. Ogni tanto mi penso proprio con la faccia di Totò quando, dopo aver salutato la platea già con la bacchetta in pugno, si gira verso la banda e vede i suoi soci estrarre dai portastrumenti fucili e mitragliette. Ragazzi, perché non riusciamo a suonare? Perché la musica ci resta sempre lì, sul tavolo della pizzeria? Beninteso, non è colpa di nessuno. Non è che ce la dimentichiamo. Però, non so, non la mettiamo mai sulla pagina come sembreremmo capaci di fare. Secondo me, l'Italia possiede un potenziale di scrittura unico in Europa. Eppure eccoci qua, tanti Del Piero che giocano con le pinne, tanti Mick Jagger che cantano con la caramella in bocca.
Alle presentazioni il vuoto allo stomaco lo provo davvero, quelle domande le condivido davvero. Per me la scrittura resta una forma di conoscenza. lo leggo e scrivo per capire di me qualcosa che ancora non so. Finora ho imparato più cose dalla letteratura che da ogni altro genere di disciplina - immagino che anche per chi fa quelle domande sia così. Viviamo in un'epoca che chiede in ginocchio che qualcuno tenti di dirla, di raccontarla. Lo scrittore è una terminazione nervosa. Sentendo, fa sentire tutti. Non spiega. Sente e fa sentire. Trasforma esperienza in narrazione, persone in personaggi, vita in racconto. Bene, che cosa sentono oggi gli scrittori? Sentono il mondo, sono coraggiosamente sintonizzati sul mondo. E che cosa fanno sentire? Beh, dipende. C'è chi non si è ancora rassegnato alla propria intelligenza e al proprio ingegno e li dissimula in sofisticate provocazioni neodadaiste. C'è chi ha deciso di raccontare storie di paesaggi. Ripeto, storie di paesaggi. C'è chi, dopo essersi sbudellato sull'inferno dei professionisti cui appartiene rivaleggiando col miglior Capote, ha scritto un romanzo ineccepibile e invissuto. C'è chi si è rifugiato nella corsa. C'è chi compone migliaia di bellissime pagine sul caos, lavorando con maestria eccelsa per non farsi leggere. C'è chi ha semplicemente appeso il computer al chiodo e si è messo a fare l'editor.
Perché non riusciamo a prendere il mondo per le corna? Perché non riusciamo a raccontare storie - non importa se inventate, vere, realistiche, surreali - in grado di spremere la vita, di metterla sotto torchio? Perché dobbiamo continuare a sentire che solo gli americani, solo gli inglesi, eccetera eccetera? Perché dobbiamo lasciare che i professori ci dicano ancora: non sapete altro che cianciare, statevene a casa a ricamare i vostri romanzetti, che è meglio?
Ho accennato a persone che non stanno in nessun giornale, non hanno nessuna cattedra, non sono giurati di nessun premio, ovvero non hanno nessun potere se non quello, enorme, di escludermi dalla prossima pizza. Non ho citato. i loro libri perché questa non è una recensione, ma appunto una riunione di pizzeria, in cui ora cedo la parola.


Romolo Bugaro, Ci vogliono modestia e tradimento per narrare la realtà, pubblicato su "l'Unità" del 19 gennaio 2004:

Agli scrittori italiani manca qualcosa. Sono intelligenti e acuti, sono sintonizzati sulle frequenze giuste del reale. Quando si incontrano, magari intorno al tavolo di una pizzeria, i loro argomenti hanno poco da invidiare a una discussione su Micromega. Sentono il mondo attuale come unico interlocutore e sono tutti morbosamente, famelicamente avvinti al presente. Ma poi, quando si tratta di tornare a casa e mettersi al lavoro, non ce la fanno. Non riescono a "mettere sotto torchio la realtà", estraendone la necessaria e sofferta spremitura di succo. Intelligentissimi in potenza, sensibili e capaci di captare le frequenze ultrasoniche della quotidianità, sulla pagina sembrano altrettanti Del Piero che giocano con le pinne, dei Mick Jagger che cantano con a caramella in bocca. Al punto che il lettore si sente quasi tradito dai loro libri. All'estero no, sono molto più bravi: autori come Wallace, Houllebecq, Palahniuck, riescono a restituire un segno, una cifra significativa del mondo. Questo, per non parlare degli autori (esteri) veramente grandi: per esempio Don De Lillo. Gli scrittori italiani, volano molto molto più basso.
Questo, in una sintesi un po' brutale, ciò che ha scritto Mauro Covacich, pochi giorni fa, sull'Espresso. Di quali scrittori parla Covacich? Tanto per fare qualche nome: Dario Voltolini, Tiziano Scarpa, Antonio Moresco, Giulio Mozzi, Marco Franzoso, Roberto Ferrucci. E il sottoscritto. Un gruppo che certo non esaurisce il panorama nazionale, ci mancherebbe altro. Ma ha una qualche rappresentatività.
La diagnosi di Covacich è severa. Chiama in causa amici e colleghi nel modo più diretto possibile. (Per inciso, Covacich include nel giudizio di insufficienza anche se stesso). Si tratta davvero di un tema importante, anzi decisivo. A proposito del quale mi sento di dire alcune cose. Con una breve premessa: i libri veramente importanti - quelli che "mettono sotto torchio la realtà" in modo significativo - sono sempre la risultante di un'alchimia complicata. Per semplificare direi: di un clima. Si può pensare allo scrittore come a un essere perfettamente solitario, che trae forza dallo stare sulla cima della rude scogliera eccetera. E' una bella immagine, davvero. Ma non serve commentarla. In realtà, forza e impegno sono necessarie semplicemente come "precondizioni". Devono poi incontrare dell'altro. Un clima, appunto. Non parlo di luogo che "accolga" il lavoro della scrittura. Parlo di un luogo che contribuisca a costituirlo. Di un sistema che offra declinazioni, argomenti, temi. Che risponda alle sollecitazioni. Che, in definitiva, consenta il circolo dell'energia disponibile. Sotto questo aspetto, esistono certamente delle difficoltà. E tali difficoltà, nel produrre silenzio e disunione, allontanano la possibilità di sentire una grande voce.
Il "clima" comunque non è certo tutto. Ci mancherebbe. Perché un autore (una generazione?) esprima dei libri importanti, bisogna parlare soprattutto di altro. E qui potrei azzardare la parola tradimento. Per fare bene, serve il tradimento. Che significa? Provo nuovamente a semplificare. Può essere utile e salutare non mettersi al servizio esclusivo e totale della propria idea di scrittura, di poetica, di "Arte". Può essere utile e salutare sforzarsi di spiazzarle, di tradirle entro certi limiti. In nome di cosa? Dell'incertezza. Dell'ascolto. Di un principio di accordo col mondo. In effetti si tratta di trasportare ciò che si fa in un luogo di rischio maggiore - forse di esposizione totale - a costo di qualche spaesamento. E' un tema che si presta a molti fraintendimenti, mi rendo conto. Eppure credo proprio che sia così. In quella modestia e quel tradimento, peraltro, risiede forse l'unico passaggio possibile verso il romanzo davvero importante.
Dunque, per tornare alle questioni poste da Covacich: forse alcuni di noi sono - come dire - molto fedeli a sé stessi. Non si tradiscono mai e poi mai. Evitano ogni contaminazione. Non è un merito. Significa non essere fedeli a niente.
C'è poi un terzo punto, del quale purtroppo è quasi impossibile parlare. La questione - privatissima - delle reali forze di ognuno. Fino a dove arrivano? Lì entrano in gioco questioni realmente insondabili. E' difficile, impossibile trattarle su un giornale. Certo sentirmi dire "Ehi, amico, tu puoi fare di più" non mi ha offeso. Mi ha soltanto costretto ad alcune, personalissime riflessioni un po' scabrose. Che sono sempre salutari.


Giulio Mozzi, Circa Covacich su L'Espresso: Sottrazioni pubblicato su www.giuliomozzi.com, il 14 gennaio 2004:

Perché gli scrittori italiani si sottraggono a tutto ciò? Perché lo ignorano mentre raccontano le loro storie?
Questa è la domanda che percorre tutto il pezzo [di Covacich, ndjurij], e che mi lascia sbalordito. Perché, sinceramente, a me non sembra che gli scrittori italiani "si sottraggano a tutto ciò".
La prima cosa che mi viene in mente è che forse Mauro e io non leggiamo gli stessi libri. Non so: il trittico epico-musical-politico di Giuseppe Caliceti (Fonderia Italghisa, Battito animale, Suini). La città distratta di Antonio Pascale. Tutti i libri di Antonio Franchini, e in particolare L'abusivo. (Mi arriva una lettera da Livio Romano, e mi accorgo che comincia citando proprio questi libri qui). Luisa e il silenzio, Cinghiali e altri libri di Claudio Piersanti. Maggio selvaggio di Edoardo Albinati. Tutti i libri di Eraldo Affinati, soprattutto Campo del sangue e Il teologo contro Hitler. Assalto a un tempo devastato e vile di Giuseppe Genna. Cronaca di un servo felice di Francesco Permunian. Eccetera. E' possibile, certo, che Mauro e io non leggiamo gli stessi libri; o forse, addirittura, non viviamo nella stessa Italia.
La seconda cosa che mi viene in mente è che mi pare che nel nostro piccolo, in Sironi, abbiamo fatto tutto fuorché "sottrarci a tutto ciò": sia pubblicando libri al limite del reportage (Piramidi di Elio Paoloni, Porto di mare di Livio Romano, Non è il Paradiso di Antonella Cilento, Viaggio nel cratere di Franco Arminio) e tuttavia intimamente, profondamente "letterari"; sia proponendo romanzi della storia recente (Dopoguerra di Guido Barbujani, La messa dell'uomo disarmato di Luisito Bianchi: che non sono "retti dall'idea che lo statuto dell'arte preveda un allontanamento dal tempo presente", come scrive Mauro, in altra parte dell'articolo, definendo così la "memorialistica" e il "romanzo storico"; bensì sono libri che raccontano le origini del presente e ne mettono in crisi le rappresentazioni correnti); sia infine tentando la via della visionarietà, intesa non come fuoriuscita dal concreto e dal presente, ma come ultra-vista sul concreto e sul presente (Standards vol. I di Vitaliano Trevisan, Sleepwalking di Laura Pugno). Non voglio dire che la letteratura che Mauro va cercando sia quella che Sironi pubblica. Voglio dire che, in somma, sbattersi tre anni, in quella decina di persone che siamo in Sironi, proprio per fare libri che "raccontino l'Italia com'è"; e sentirsi dire netto netto, da una persona tutt'altro che stupida come Mauro Covacich, che in generale i narratori italiani "si sottraggono a tutto ciò"; be', come dire?, fa un po' impressione. Forse abbiamo sbagliato tutto. O forse non siamo riusciti a far leggere i nostri libri a Mauro Covacich.
Ma il pezzo pubblicato nell'Espresso continua con una lode dei narratori italiani:
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Giuseppe Genna, Circa Covacich su L'Espresso: Addizioni, pubblicato su I miserabili il 14 gennaio 2004 :

L'articolo di Mauro Covacich, pubblicato su L'Espresso con la copertina dedicata agli ottantenni scatenati, mi crea perplessità. Queste perplessità non le esprimo, poiché coincidono totalmente con le impressioni che dall'intervento di Covacich trae Giulio Mozzi. L'autore di A perdifiato sprona coloro che, per sua stessa ammissione, potere istituzionale non hanno e che, semmai, discutono apertamente in Rete. Però Covacich non interviene in Rete, bensì in un luogo che per alcuni, ma non per me, è un'istituzione dei cosiddetti mediatori. Ecco perché un dialogo appare difficile e la provocazione di Covacich non è affatto tale, a meno che L'Espresso non decida di pubblicare sulle sue pagine una risposta da parte di chi è stato chiamato in causa. Come si vede, è tutto mediazione e piuttosto inutile rispetto ai modi in cui si sta nomadicamente srutturando l'intelligenza collettiva. Per questo motivo, mi pare più opportuno discutere dei rilievi fatti da Mauro in positivo. Il che significa che mi adopero a dimostrare perché Moresco è meglio di Houellebecq e Palahniuk, e anche perché la letteratura è meglio della sociologia letteraria - e non intendo che si tratti di cose diverse, intendo proprio che le une sono meglio delle altre.
La realtà finta

L'affermazione di Covacich sulla realtà, che sarebbe slittata nei termini dello psichismo collettivo verso una fiction generalizzata, verso il reality show, è essa stessa di un realismo fiction che io non condivido. E', pressappoco, quanto avrei avuto da dire a Mauro ai tempi del suo penultimo romanzo, L'amore contro: non è l'elemento finzionale che deve essere intercettato, oggi. La letteratura lavora sul seminale e mai sul mimetico. Ieri ho tradotto un'intervista a George Saunders che, all'incirca, sostiene la medesima tesi: il realismo non esiste e, se anche esistesse nei termini di una rappresentazione mimetica, non arriverebbe alla percezione della caotica, meravigliosa luminosità del reale. Lo scarto di sovradeterminazione e lo spostamento attraverso modificazioni di intensità (la sottrazione nel caso di Houellebecq, l'addizione nel caso di Foster Wallace) è il più banale degli strumenti che madre natura ha dato in dotazione allo scrittore. La generalizzazione per cui la percezione comunitaria del reale sarebbe finzionalizzata è esatta sempre, anche quando la tv non esiste: la percezione è automaticamente finzionale. Ecco perché lo scrittore, prima di riosservare la realtà, afferisce del tutto naturalmente a tradizioni che non sono soltanto letterarie, ma anche filosofiche, psicologiche, musicali, e più latamente ritmiche. Il richiamo che Mauro fa a Heidegger, per esempio, è significativo: poiché Heidegger non intende minimamente parlare dell'essere-per-la-morte nei termini in cui ne parla Covacich, e la stortura interpretativa che della cosa dà Mauro è essa stessa una fiction di secondo grado e un utilizzo ingenuo del macchinario del potere. Il tutto, va da sé, è minimale dal punto di vista di quello che, accordandomi al lessico di Mauro, potrei chiamare 'pubblico'; ma si tratta comunque di un assolutismo comunicativo che, in un qualche modo, ha a che fare con le cautele che utilizziamo ogni qual volta scriviamo. Perché si potrà ripetere all'infinito che lo scrittore è uno "che si fa le menate", ma non siamo su un piano differente rispetto a quello dell'idraulico che, prima o poi, deve imparare come si aggiusta il rubinetto e quali fasi attraversa la sua opera. La prassi intellettuale non può venire accusata a partire dal paradosso che la costituisce: è pratica ed è intellettuale. Non è che l'artigianato sia una cosa diversa: è pratica ed è intellettuale. Se il fatto sconcerta, pace e amen: è inutile imbarcarsi in una dialettica che già a priori aprirebbe una cattiva infinità - questa sì non pratica per nulla.
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Tullio Avoledo, pubblicato su "Il Giornale" e su www.giuliomozzzi.com il 21 gennaio 2004:

Ho letto l'articolo de L'Espresso in cui il mio amico Mauro Covacich, chiamando in causa in un mea culpa o auto da fé collettivo, oltre a se stesso, altri autori italiani (fra cui il sottoscritto) ha accusato tutti di ignavia, o quantomeno di indolenza, in quanto secondo lui saremmo in possesso di una "potenza di fuoco" percettiva straordinaria, unica, che però nessuno di noi sarebbe poi capace di mettere sulla pagina. Parole pesanti come pietre. In chiusura d'articolo, Mauro cede generosamente la parola, e il cilicio, ai "colleghi". Bene, eccomi qui. Il cilicio però mi sta un po' stretto. Vediamo come posso evitare di indossarlo.
Punto primo. Non conosco, e ne chiedo venia, alcuni degli scrittori italiani che Mauro nomina nel suo articolo. Prendo comunque per buona la sua parola sul fatto che tutti esistono, e che tutti scrivono pura fiction, trascurando di interpretare la realtà. In compenso conosco bene gli stranieri che Covacich cita a miracol mostrare, e francamente non mi sembra che Houellebecq, Pelevin, Wallace, Palahniuk o De Lillo raccontino fedelmente la realtà. Certo colgono, per citare Mauro, "frequenze ultrasoniche, gamme d'onda pressoché impercettibili" della realtà. Ma mi sembra che lo stesso facciano anche alcuni degli scrittori italiani che Mauro ha citato. Può darsi sia solo questione di quantità: l'America forse emana più realtà. Forse i grattacieli di Manhattan emettono più energia reale del lungomare di Rimini. O forse è tutta questione di gusti e Mauro, semplicemente, è un esterofilo.
Punto secondo. Tutta la "realtà" che Mauro cita in apertura d'articolo, e che noi non saremmo capaci di descrivere, come può definirla realtà? Era presente al crollo delle Twin Towers? Ha davvero visto in azione un kamikaze di Hamas? Quello che può aver percepito è solo il riflesso mediatico di questi eventi, che è cosa ben diversa dalla realtà. Potrebbe, al limite, come a volte sospetto, essere solo propaganda, e quindi l'antitesi della realtà. Cos'è la "realtà" dell'11 settembre? Sicuramente non è la stessa per il presidente Bush e per un fondamentalista islamico. Il fatto è che c'è, e c'è sempre stata, una realtà per ogni persona, e nessuna è più "reale" delle altre, e molte cose che ci vengono fatte passare per reali, e che si sedimentano nella nostra coscienza o in quella collettiva come "realtà" forse non lo sono affatto. E' la "frequenza ultrasonica" che ho cercato di esplorare e mettere a fuoco ne L'elenco telefonico di Atlantide.
Punto terzo. Mauro afferma che "lo scrittore è una terminazione nervosa, coraggiosamente sintonizzata sul mondo, che, sentendo, fa sentire tutti". Lasciando da parte il "coraggiosamente", che mi sembra decisamente fuori luogo, mi sembra che questa visione elitaria dello scrittore sia cosa d'altri tempi. Al giorno d'oggi ogni individuo delle società tecnologicamente evolute è una sinapsi esposta al potenziale contatto con l'intero mondo. E al tempo stesso una gracile monade. Tutti, scrittori compresi. Alcuni dei quali, effettivamente, sono più sensibili della gente comune. Ma in questo non vedo niente di eroico. Un autore americano che amo e che Covacich non ha citato, e che per questo io invece citerò più volte in questo articolo, Kurt Vonnegut, ha detto che gli scrittori sono come i canarini che i minatori si portavano giù nei cunicoli delle miniere, in una gabbia che poggiavano sul pavimento. Se il canarino cominciava a boccheggiare e poi cadeva stecchito i minatori capivano di dover fuggire, perché c'era una fuga di gas. Può darsi che l'asfissia narrativa che Mauro avverte sia il canarino che boccheggia. Io ho appena dato un'occhiata ai miei compagni di gabbia, e non mi sembra stiano poi tanto male. Ma sono entrato da troppo tempo nel club dei canarini. Finora sono stato più attento a evitare le beccate che ad annusare le fughe di gas.
Punto quarto. E' stato sempre Vonnegut a scrivere che l'impegno politico degli scrittori contro la guerra del Vietnam aveva prodotto l'equivalente intellettuale "di un raggio laser di indignazione morale". Aggiungendo peraltro che la potenza di quel raggio si era rivelata equivalente a quella "di una torta alla crema del diametro di 90 centimetri, lasciata cadere da una scala alta un metro".
Tutto questo per dire che secondo me c'è, nell'articolo di Mauro, un'esagerata sopravvalutazione del ruolo dello scrittore. A mio parere sarebbe molto più proficuo se ad applicarsi sul tema della realtà fossero i politici, o i comici, o comunque qualcuno con più audience, piuttosto che gli scrittori, che se va bene sono in grado di far giungere messaggi forse all'uno per mille dell'umanità. En passant, è stato ancora Vonnegut, riferendosi alla poesia Urlo di Ginsberg e al suo celeberrimo inizio "Ho visto le menti migliori della mia generazione ecc. ecc." a dire che Ginsberg forse avrebbe dovuto cercare le "migliori menti della sua generazione" da qualche altra parte, piuttosto che fra i fuoricorso della Columbia University. Sostituite "Columbia University" con "mondo letterario italiano" e questa è anche la mia opinione.
Ma sempre Vonnegut (lo cito, giuro, per l'ultima volta) ha detto un'altra cosa importante, che dovrebbe confortare Mauro, e cioè che gli scrittori controcorrente non avranno magari alcuna influenza sui politici dell'epoca in cui scrivono, ma l'avranno senz'altro sulle generazioni future. Io ad esempio, quando scrivo, ho in mente un lettore futuro che è mio figlio Francesco, di sette anni. Ho la sensazione che quando avrà l'età per leggerli, i miei libri gli piaceranno. Che ci troverà la realtà di questi tempi in cui vive ma di cui ancora non si rende conto.
Altrimenti, se non la troverà nei miei libri, la cercherà da qualche altra parte.


Enrico palandri, La vera domanda è: dov'è la realtà?, pubblicato su "l'Unità" del 30 gennaio 2004:

Ho lanciato insieme ad altri una mailing list che dovrebbe accompagnare quattro tappe di un seminario itinerante sulla letteratura contemporanea organizzato insieme alla Holden di Torino, le università di Venezia, Bologna e Milano (ne ha già parlato Roberto Camero su queste pagine il 29/12). La mailing list è a un certo punto impazzita, ha avuto un flame: una impennata di insulti, la gente ha iniziato a fuggire dal sito come da un luogo pericoloso, una persona mi ha persino minacciato di portarmi in tribunale, sebbene non ho capito bene per cosa; alla fine ho chiuso la mailing list e l'ho trasferita a un diverso indirizzo sperando questo possa filtrare gli iscritti. In questo luogo nuovo però nessuno osa più parlare da alcune settimane. Ho visto che cose simili sono toccate a altri siti nati con ambizioni analoghe (nazione indiana, spazio creativo ecc.) e con fatti anche più clamorosi e dannosi, gente che prendeva false identità per creare guai anche gravi a persone. Prendere ad esempio il nome di un ex partner per lanciare attacchi violenti e altre simili pericolose facezie.
La rete offre un'opportunità meravigliosa: non veniamo giudicati per l'aspetto fisico, per la condizione economica che esibiamo o nascondiamo nel modo di vestire, per l'età o per il sesso. Siamo solo una parola senza volto. Ma moltiplica anche il pericolo di essere invasi da un altro mondo.
Braudel diceva che tutti abbiamo bisogno di un altro mondo. Oggi mi chiedo quanto ci manchi questo. Penso cosi quando suona un telefonino e l'altro mondo, quello di chi non è qui con noi, ci separa dai luoghi e le persone con cui sia quando diventa un abitudine imli1aginare il mondo come l'insieme di altro che ci separa da questo, un altro popolato di guerre, terremoti epidemie o crisi che avvolgono il pianeta mentre magari crollano rapporti centrali nella vita di ognuno, veniamo traditi o tradiamo, e la responsabilità del nostro agire viene spostata dal centro della nostra vita in questo universo parallelo, fatto di eventi decisivi, drammatici eppur????Ÿ??e lontani. Quasi che la vita con- creta fosse ormai una delle possibilità e non il centro.
Un seminario di letteratura è poca cosa, si parla di libri, di ipotesi, interpretazioni. Eppure, non negli incontri che abbiamo avuto ma nel suo doppio parallelo e virtuale, la mailing list, è arrivata a una tensione quasi insopportabile. Allora non posso non fare una considerazione, da cui sono nati molti equivoci con alcuni membri della lista e con i più giovani in questi incontri, che mi hanno chiesto di parlare di politica, di assumere responsabilità politiche (che in realtà io non ho mai avuto, ma che sono spesso associate ai miei libri). C'è una mancanza di massimi sistemi (politici, religiosi, filosofici). O più precisamente e semplicemente: c'è una mancanza. Paradossalmente la letteratura, che per Cervantes o Flaubert è il mondo immaginario in cui tanti eroi sfuggono alla realtà (Don Chisciotte, Emma Bovary) si trova quasi rovesciata in un proprio opposto e chiamata ad assumere responsabilità che la superano, come se tutto il mondo fosse finito su Marte. La frase che ha provocato il flame era di Calvino, parlava della politica che è ìnsufficiente a capire il mondo, arriva tardi e ha suoi fini. Certo la letteratura, che può meno di tutto, non può rispondere a nulla. li termine stesso è terribilmente ambiguo, in realtà vorremmo parlare di ciò che è nella letteratura, della poesia e di ciò che attraverso la poesia si affaccia. Ma constatare la nostra separatezza dal reale è umiliante e allora parliamo di letteratura come di una disciplina particolare, un insieme di libri con caratteristiche simili che sta li, da qualche parte, c'è qualcuno che se ne occupa.
In questo modo quello diventa il luogo che avverte il peso delle domande senza risposta. Perché è di tutti e di nessuno. Chiediamo che rapporto c'è tra letteratura e realtà (biografia, storia ecc.) ma il senso vero della domanda è: dov'è la realtà?
Non voglio contrabbandare con una forma di filosofia la mia ignoranza su ciò che per sua natura si fa più com????Ÿ??plesso e inafferrabile (ma anche più ricco) via via che ci si presta attenzione. Ma la democrazia totale del mondo virtuale rivela oggi più che mai cosa significhi annegare nelle domande. Viene nostalgia dell'aura, degli uomini e delle donne che ricordiamo per il mondo che hanno mostrato. Non è necessario crederci, è li. E proprio perché è così evidente tanti gli chiedono: ma cosa sei davvero? E dove porti? Domande cui non possiamo rispondere. A me sembra già tanto che l'infinito di Leopardi, un quartetto di Beethoven, una canzone di Dylan o una fotografia di Cartier Bresson mi mostrino una cosa.


Lello Voce, Letteratura e reale: il gatto si morde la coda... , pubblicato su "l'Unità" e su www.lellovoce.it, l'8 febbraio 2004:

Covacich dice, magari in modo troppo 'giornalistico', dell'inadeguatezza della letteratura italiana nei confronti del reale, lo dice con i toni della deprecatio, alternati a quelli della laudatio esterofila, ma coglie un sintomo importante. Ciò che colpisce nel dibattito che segue, su carta e in rete, invece, più che gli argomenti (i testi), sono i contesti. La concordia nell'alzata di scudi, ad esempio: certo, Covacich fa poco oltre che lamentare una situazione, esprimere sensazioni (e non è molto per uno scrittore che, in fin dei conti, è un intellettuale), ma perché, invece di approfondire, ci si limita a difendersi con tanta vivacità (Genna), o si parla d'altro (Palandri), si prova a salvar capra e cavoli (Bugaro), o si fa scivolare il discorso, con accento vagamente da mosca cocchiera, su temi altrettanto da salotto, quali quelli toccati da Mozzi nel suo intervento su queste colonne (ci manca l'autore [l'io?], meglio un romanzo grasso che uno magro, occorre tornare al romanzo settecentesco, epoca si sa, innamorata delle pinguedini)?
Poca roba, in verità, eppure il tema, in sé, sarebbe decisivo: quello della capacità della letteratura di essere contemporanea al proprio presente, di essere in grado di narrarlo, di avere la lingua adatta, di essere all'altezza di concepire nuove strutture, di saper fare i conti con la crisi di idee e di forme. Ma Mozzi, in un primo intervento su I Miserabili, si preoccupa innanzi tutto di difendere il suo lavoro di editor presso Sironi, mentre Genna, sempre sul medesimo blog, mette in salvo la bandiera (Moresco) e poi si avventura in analisi che, sia detto per onestà, sono di sciatteria olimpionica. Qualche esempio: "(…) l'incantamento: uno stato psichico al quale la letteratura invita, verso il quale essa fionda [sic!] quando è grande letteratura. (…). La letteratura non fa pensare (..). La letteratura veicola uno stato che approssimativamente potrei definire 'ultrapsichico'". Niente male come carta da visita di una prosa che si vuole capace di fare i conti con la complessità del reale. Perché il problema di fondo è precisamente e più che mai quello del reale, non quello del realismo, e, meno che mai, quello della mimesi. Chi sono, in questa discussione, i nipotini di Metello? Quali gli epigoni di Liala?
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Sparajurij, La Novità e la Luccicanza...(In Italia ci sono anche), pubblicato su "l'Unità" del 17 febbraio 2004:

Proseguendo il dibattito avviatosi sulle pagine dell'Unità da qualche settimana, ci sembra sia venuto fuori solo che in Italia non ci sono grandi scrittori in grado di raccontare questo tempo e che chi scriveva s'autoenumerava tra costoro. E invece noi più generosi, si voleva regalare qualche esemplare esempio: ricordando che per tale scopo ci vuole una scrittura capace di maneggiare il mondo, e non lingua una "sorvegliata" e "nostalgica", come viene propagandata quella di una nuova antologia di cosiddetti "giovani scrittori" in uscita…
Per evidenti ragioni di spazio e di tempo, appunto, quindi di velocità, ci concentreremo su due nomi in particolare: Aldo Nove e Nero Luci. La Novità del primo, intesa come esistenziale caratteristica che appartiene a lui solo, come capacità di rendere un sistema linguistico un sistema di pensiero, un autore epifanico e prenatale, che saggia coraggiosamente la persistenza della memoria sulla propria pelle, che come la lingua fatica a ridursi a logo in un epoca di globalizzazione e s'offre quale condensatore psichico, antenna dei desideri e degli scontrini quotidiani. La Luccicanza del secondo, liberato della pesantezza industriale di un "corpo-autore", senza il bi/sogno di celebrarne la fine nella rinascita resurrezione di un "corpo fine" in grado di percepire una sostanza più sottile e meno illusoria. L'incipit rinnovato nello gnosticismo punk, reincarnazione e disvelamento che nell'universo percettibile non esiste la verità, che ogni idea quando viene analizzata risulta contenere e continuare una contraddizione, e un bisogno irrefrenabile di dire contro.
Ciò che Nove e Luci hanno in comune non è il sindaco, vivendo i due in città diverse, ma la facilità di raccontare lo sconcerto della musica dal vivo di oggi, apparente facilità che non risiede nell'illuminazione di un pensiero emotivo, che viene e va, ma dalla loro istruzione, dalla loro programmazione, dalla loro ora, che è ora, più di qualunque altra una preghiera necessaria e incantevole. In entrambi, seppur in forme assai diverse, è presente la consapevolezza che nella velocità che viviamo questa vita è troppo, uccide, basta appena. Consapevolezza che la condizione in cui viviamo non ammette molte condizioni, o meglio non le vuole permettere e che di conseguenza ognuno per sé deve cambiare il mondo, trovare il modo. Aldo Nove e Nero Luci sanno che si scrive (dice) per farsi baciare, a volte lettera, altre testamento, ma che è sempre e comunque una forma di penitenza e di impertinenza.
Rivolgere la pargoletta mano di scrittore ad un altrove oceanico che è già passato, ci riferiamo a Pynchon o De Lillo, è un'inutile tentativo di non vincere alla tombola mai. Rivolgersi ancora come Mozzi e Covachic a quei libri "grassi e pesanti" che si sformano e si fatica a reggere con le proprie mani, vuol dire confondere la cultura con il culturismo, l'alluvione con l'ipertrofia della lingua, che come insegna Tommaso Ottonieri è ben altra cosa. Le alluvioni distruggono solo il suolo, le superfici: la lingua per distruggere e ricostruire deve essere come un virus, invisibile e sexy a ricreare situazioni.
Perché, per concludere sinteticamente, l'incapacità reo-confessa di narrare la realtà, il proprio tempo degli autori di cui si è parlato in queste pagine in questi giorni, è forse la stessa incapacità di leggere i propri spazi (Italia) e di saper leggere chi li popola e frequenta degnamente. Non è un caso che i saggi sostengano che temere il proprio tempo sia un problema di spazio.
Sparajurij


Angelo Guglielmi, Il presente irraccontabile, pubblicato su "l'Unità" del 30 febbraio 2004:

Il grido di dolore di Covacich – che gli scrittori italiani non sanno raccontare il presente a differenza degli scrittori americani che non fanno che raccontare il presente ci ferisce? Quel grido è anche il nostro? Sì, è anche il nostro ma nel senso che di quell’incapacità siamo vittime non gli artefici o il motore primo. Noi non raccontiamo il presente (la cosa riguarda l’intera letteratura europea) perché il presente non può essere raccontato. Intendiamoci, qui per presente intendiamo gli eventi di cronaca e storici (con annessi i presupposti emotivi e di pensiero) in cui si srotola il presente e definiscono la nostra esperienza quotidiana. E non può essere raccontato perché abbiamo perduto il linguaggio per farlo. La lingua che possediamo che abbiamo ereditato dai nostri padri e loro dai loro, si è consumata e non è più in grado di dire la verità (nel senso di garantire una comunicazione credibile). Sa solo mentire o se preferite, pronunciare parole vuote. Si consumata per l’uso, dopo secoli e secoli, che hanno visto il mondo più volte e cambiare volto, di esercizio, (appunto d’uso) e, infine con l’ultimo secolo per Avere Subito il più formidabile attacco inflazionistico ad opera del moltiplicarsi dei mezzi di comunicazione di massa (e della loro irresponsabile invasività). Le parole hanno perso il loro potere di nomina, si è interrotto il rapporto parole-cose che se una volta coincidevano oggi si sfuggono. Ma stiamo ripetendo un vecchio e ormai noto discorso che si presenta in tempi sostanzialmente simili fin dal tempo di Flaubert quando i due compagnoni perdigiorno Bouvard e Pécuchet dopo aver per pagine e pagine (del libro che stavano scrivendo) giocato con le parole, sfottendole per la loro pretesa di essere autorevoli e veritieri si sono ritrovate nelle ultime pagine a disporre di (e rimestare) pochi segni privi di senso che se vieppiù eccitavano la loro malizia anche dicevano la loro malinconia di una così misera conclusione. E quella malinconia è rimasta sulle spalle e veste tutti gli scrittori che sono venuti dopo (che si sono succeduti a Flaubert), i quali tuttavia per nulla rinunciatari, preso dolorosamente atto del gran lutto, si sono attivamente impegnati a procurarsi un linguaggio alternativo, magari in lotta con le regole della sintassi e della logica, che se non riusciva a raccontare il mondo quale appariva (il cosiddetto presente), certo non sapeva dire (evidenziare) il senso. (Che poi è quello che alla fine si chiede a uno scrittore, qualunque poi siano gli strumenti linguistico formali di lapidaria evidenza o di più complessa percezione – che sceglie o meglio che è costretto a adottare). Così nacquero i grandi autori contemporanei cosiddetti illeggibili (da Joyce, a Pound, Celine, Musil o Montale) che, attraverso l’accelerazione di una violenta contestazione linguistica (del linguaggio comune), riuscirono a recuperare (e dare forma a) quel senso di verità e di necessità esistenziale che sembrava essersi perso nelle pieghe arruffate della realtà disgregata, in cui abbiamo vissuto per tutto il Novecento e ancora ci viviamo. E allora (per tornare al grido di dolore di Covacich) oggi assistiamo non tanto all’incapacità della letteratura di raccontare il presente (la realtà del quotidiano) e di spremerne i succhi – che se è vero (ed è vero) quello che abbiamo sopradetto non è raccontabile quanto alla mancanza nel nostro paese di scrittori che abbiano la forza dell’intelligenza e dello stile capace, come fu vero per Gadda o Gombrowicz, di contrastare l’inevitabile afasia che ha colpito la scrittura (il linguaggio) e, reinventandola, restituire la capacità di parlare. Certo a essere rimessa in auge non sarà più la parola diretta che abolisce la distanza tra la parola e quel che dice, ma la parola metaforica che forse ingigantisce quella distanza e sceglie una strada altra, meno agevole ma finalmente percorribile, per rimettere in contatto e riavviare il dialogo tra testo e lettore.
Ma perché agli americani dovrebbe essere permesso ciò che a noi è impedito? Perché Wallace o Franzen possono raccontare il presente e immergersi e restituire con segno letterario alto la realtà di cui sono attori insieme a milioni di loro concittadini mentre Scarpa e Nove, Mari o Moresco di quella realtà al meglio forniscono l’immagine allegorica o la favola intransitiva? È che gli americani hanno solo il presente appena lievemente intaccato dalla presenza di un passato la cui capacità di usura è pari alla sua ricchezza. Il passato di una civiltà sono i suoi anni (secoli), che accumulandosi fanno la sua vecchiaia. Non è Braudel che ha detto che la nave della storia già da tempo ha abbandonato il Mediterraneo per l’Atlantico per il Pacifico? Non è infatti impossibile prevedere che l’America in un futuro non ,lontano e se ne vedono già in segni anche in letteratura possa perdere io privilegio di cui oggi beneficia e essere costretta a consegnare i suoi narratori alle stesse difficoltà e stravolgimenti che patiscono e azzardano gli scrittori europei.
Certo si tratta di difficoltà che alcuni complicano oltre ogni dire mentre altri hanno imparato a scrivere. Più che di altri meglio parlare di uno. Quest’uno è Niccolo Ammanniti. Che ha deciso di fare l’americano. Niccolo è una creatura pura: non nasconde che quando vede accendersi sullo schermo del suo computer la parola Noxia viene travolto da un impulso di orgasmo. Cinema, fumetti, canzoni, fantascienza sono il suo nutrimento quotidiano che per lui non costituiscono il facile cibo messo a disposizione dal consumismo, ma rappresentano la nuova mitologia, il nuovo modo di essere della civiltà, che ha carnevalizzato il mondo e messe le maschere agli dei. Ha affrettato e velocizzato la realtà liberandola dal tempo fermo del pensiero. Niccolo è sempre in moto: scrive i suoi romanzi da un’amica in Messico, nella casa baracca di un’isola greca, nella stanza buia di un palazzo avito di Postano. Ma non perché cerca accoglimento e pace ma al contrario vuole estraniazione e smarrimento che gli permettano di fare quel che ai suoi colleghi è vietato cioè di rinunciare a ogni cautela etica e abbandonarsi a raccontare storie nere con l’impudenza e l’innocenza di un teatrante antico.
Ma se Ammanniti ha imparato a schivare le difficoltà che imprigionano lo scrittore vi è anche chi in quelle difficoltà si specchiava come Narciso, estasiandosene fino all’ultima goccia. Da qualche tempo vado affermando (e non sono ancora stato smentito) che vi è un genere letterario (certo minore ma comunque legittimo) che riuscito a sfuggire alle devastazioni di senso, alla perdita di credibilità che ha investito negli ultimi cento anni la fiction d’invenzione. Questo genere è la memorialistica in cui agiscono protagonisti le cui azioni si riferiscono a uomini e donne realmente vissuti (e segnalatesi in vita per egregi imprese), appartengono a un corpo vero che può essere toccato, che qualcuno ha toccato (per tutto il tempo in cui è stato in vita) e dunque sopportano anzi pretendono di essere raccontate per quel che si mostrano proponendosi come documento la cui credibilità non ha bisogno di essere cercata (anzi rischia di essere offesa) approntando complesse strategie stilistiche. Finalmente davanti a un diario, a una biografia il lettore di oggi torna a uno stato di felicità che conosceva quando da ragazzo leggeva i grandi o meno romanzi dell’Ottocento, torna alla felicità della narrativa di fatti che sa oggi non più possibile ove si esca da questo piccolo genere (ripeto) certo minore ma con altrettanta certezza rispettato. Siamo poi sicuri che è un genere minore? Comunque forse il miglior romanzo di Vassalli è La notte delle comete che, si sa, è il racconto della vita del poeta Campana; il migliore Del Giudice è il racconto della vita di Boby Balzen; e certamente straordinarie sono le autobiografie di Robbe Grillet, della Sarraute, della Duras, del norvegese Lagercranz; di grande intensità e godimento Un anno sull’altipiano di Lussu; e Servabo di Pintor; e ancora e ancora. Poi esce Il duca di Mantova di Franco Cordelli. Veniamo informati che è un diario e che al centro vi è la figura di Berlusconi. Siamo doppiamente felici, intanto perché si annuncia di lettura sciolta e piacevole e poi perché vedo finalmente risolta l’incapacità (affatto recentemente rilanciata) dei narratori italiani a parlare del presente.

  • IL DIBATTITO PROSEGUE: LA CRITICA DI LUPERINI AGLI INTELLETTUALI ITALIANI

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