report dattiloscritto Ancora una volta a Roma, Romapoesia, tanto per cambiare, che noi lì ci si va sempre, chissà poi perché, e comunque, in ogni caso, almeno una volta nella vita da questo posto vecchio e bucato che è la Capitale, almeno una volta nella vita ci si passa, volenti o nol. In altre occasioni ci hanno invitati per slam(s), letture improbabili, tiri alla fune e poco altro; ora è il turno delle conferenze, delle discussioni cosiddette in rotonda tabula, tanto per teorizzare un po’ e mettersi al posto dei professori, dei docentini che di poesia sanno e di poesia discettano da sempre, in secula seculorum amen (in un). Ora ci siamo noi, ci hanno messo dietro una cattedra provvista di microfoni che spuntano dal ripiano di finto legno come funghi oblunghi e sofferenti, imprigionati in un’aula del titanico Auditorium, pulita, calda e incinta di spettatori; il pubblico, insomma, la gente della poesia. L’incontro è fissato per Venerdì 21 ottobre, ore 21.00 e il titolo che porta tatuato sulla schiena di volantini pieghevoli rossi è un lugubre Linee della scrittura diù ricerca. Il lavoro nelle arti: performance e (ri)definizione della vocalità. Letture e interventi di: Esse Zeta Atona, Sparajurij e Sara Ventroni. Coordina Marco Giovenale. Con la partecipazione di Tommaso Ottonieri. Marco Giovenale lo vedo per la prima volta lì, pochi minuti prima dell’inizio di tutto il frastuono muto che sarà. È un ragazzo dall’aspetto placido e distratto, sorride come una zia dolce. Ci chiede notizie della nostra casa editrice con la quale avremmo fatto uscire il nostro libro e noi si cerca con gentilezza di spiegare che non possediamo case editrici ma solo un editore dissennato che ci ospita nel suo ventre caldo e peloso e che i libri (non il libro) sarebbero tre e non sarebbero affatto nostri. Spiegazione che di lì a poco si rivelerà pressoché inutile dato che il solerte e caro Giovenale, nel presentarci alla platea dirà: “Questi sono gli sparajurij e quello che troverete al banchetto fuori è un bellissimo libro scritto da loro stessi medesimi.” Nostro o loro, noi si è lì comunque per promuovere le Maledizioni e sicuramente anche per venderle. Sebbene ci venga chiesto anche di discutere a proposito di certi destini poetici nonché di leggere qualcosa di artigianale agli astanti. Come al solito la nostra preparazione è a livelli ombra, e per controbilanciare a questa mancanza (deficienza) ostentiamo per tutto il pomeriggio volgarità ad alta voce e gesti sconci. Forse proprio per questo a un certo punto si presenta al nostro cospetto una mini troupe della Rai, o qualcosa del genere. Ci sono un operatore, un fonico, una regista, una direttrice di produzione e una ragazza immagine. Ci chiedono di discutere con la telecamera. Lo fanno in molti, ogni giorno. In più le domande sono concordate, e la regista le fa leggere a Francesco mentre io sono impegnato in una lotta con lo scarico di un cesso ubicato altrove. Quando torno Francesco è già sotto i riflettori e parla di Majakowskij, di Virgilio Enea Raspini, di dio. Io mi dico “Sono in salvo, hanno preso lui” e mi rilasso con qualche gauloise all’aperto. L’idillio dura un niente, pochi minuti e l’intervista a Ciccio termina (un trionfo, come al solito; l’eloquio abile e presuntuosamente perfetto del mio compare stupisce – inspiegabilmente, ma sempre – tutti.) “Tocca a te” mi comunica la regista. “No, io non sono capace” ribatto con orrore. Ma la gente di spettacolo conosce i suoi polli e basta uno sguardo ben calibrato della ragazza immagine alla mia attenzione che vado in tilt e non riesco più a oppormi (la ragazza immagine è un misto tra naomi campbell, ma non negra, e dio in persona, ma senza dio). Mi fissano un microfonino sotto la gola e accendono i fari. La naomi non negra mi cinge il fianco e comincia a spingermi in una passeggiata finta (la sua) e goffissima (la mia) facendo domande studiate a memoria. “Se ti dico la parola urlo, tu a cosa pensi?” “Mattonella” rispondo. E dopo qualche istante di silenzio indignato spiego le ragioni di una posizione tanto scomoda tirando fuori il peggio di me e del mio rapporto con la lirica. Altre due o tre risposte del genere e mi tolgono l’audio, spengono tutto, restituendomi al mondo della quotidianità. Ma dopo una decina di minuti ci ripensano e dicono “Visto che siete tanto bravi, fateci una bella lettura, magari insieme, così la mettiamo in mezzo alle due interviste”. Ciccio propone di esibirci nel pezzo che (non) abbiamo preparato per l’intervento poetico ufficiale (quello, cioè a dire, che ci dovrà impegnare fra non molto davanti alla platea). Si tratta della solita – collaudata – Che ne sarà dei miei gatti se scoppia la guerra, ma in versione tradotta, vale a dire che nelle nostre menti imperfette si è deciso che io leggerò le strofe in gramelot e lui tradurrà. (Il titolo del pezzo sarà dunque Coma te pimpa ist cuna badès). Dal vivo non abbiamo mai fatto nulla del genere e ci è parsa una via di fuga abbastanza plausibile. Dieci minuti prima di uscire di casa per andare alla stazione, il giorno precedente, avevo buttato giù la mia versione dei fatti, testo dei Gatti sotto mano, producendomi in improvvisazioni non prive di celate volgarità. La telecamera e i fari ancora puntati su di noi, seduti su sgabelli bianchi trasportati da un bar a un punto indefinito sotto i portici dell’Auditorium, io e Francesco iniziamo la nostra performance (“Così la proviamo pure, sarà un esercizio…” ha sostenuto lui). Solo che alla seconda terzina attacchiamo a ridere come due idioti, chiediamo scusa alla troupe e riattacchiamo. Niente da fare, di nuovo risa isteriche, non ce la si fa. È un vuoto a perdere, una battaglia persa in partenza. Ritentiamo due, tre, quattro volte; alla fine, ormai paonazzi e piegati in due dalle lacrime, dobbiamo cedere all’irritazione dell’operatore che, sbuffando, spegne tutto e dice “Lasciamo perdere”. Asciugati infine i pianti idioti ci si inizia a preoccupare. Che se faremo lo stesso davanti al pubblico sarà memorabile ma ci giochiamo la faccia (da culo) che già non va tanto bene. Andiamo a mangiare qualcosa. Ormai manca poco e iniziamo a deprimerci. Una tecnica buona per evitare di ridere in pubblico davanti a un microfono è odiare il tuo compagno. La chiamano incazzatura preventiva. L’odio non può tutto ma può molto. Inizio a detestare Francesco (il che, fra l’altro, non mi procura sforzi). Lui credo faccia lo stesso. Ci guardiamo in silenzio, con rancore. Non c’è più niente da ridere. Quando, venti minuti più tardi, entriamo nella sala già gremita, abbiamo l’aspetto di due zombi stanchi e astiosi; al nostro stesso tavolo, come previsto, ci sono gli Esse Zeta Atona, Sara Ventroni, Giovenale e Ottonieri. Breve introduzione degli ultimi due in cui viene detto che siamo tutti bravi, poi si attacca con le letture performance. I primi in scaletta sono gli Esse Zeta, ragazzo e ragazza, che si prodigano in intervento poetico duale ben congegnato e di grande impatto emotivo. Lugubri e sclerotiche, le loro voci si mischiano in un crescendo di delirio chimico che merita plausi. Poi tocca a noi. Ciccio opta per un breve cappello introduttivo in cui sostiene che lo schifo dei linguaggi impone agli eletti di inventarsene di nuovi. Stocco la prima quartina, che fa più o meno così: Coma te pimpa ist cuna badès Isch mona pel soccia iga ied ca niet Raspina de cùlacca isfe dzell budè So diffe smell piilo ish ona bidet La parola bidet suscita ilarità nel pubblico e, cosa ben più grave, nello stesso Ciccio, che inizia a ridere paurosamente, peggiorando la situazione. Breve pausa di raccoglimento, poi, con sforzo titanico, la traduzione: Che ne sarà dei miei gatti se scoppia la guerra Magari avvertono i terremoti ma le bombe no A volte do loro i resti del salame Di conseguenza hanno un pelo invidiabile Seconda tornata idiota: Coma milama ist cuna badès Pil on buumie sce cats tighema coome Ist on culodà veganu e di nuovo traduzione, questa volta senza risa: Che ne sarà di mia nonna se scoppia la guerra Sostiene di non essersi mai lavata i capelli E io ritengo che ciò sia vero Alla terza terzina in gramelot il disastro si perpetua: la traduzione di Splenger in Spilunga trova inspiegabilmente consenso nelle complicazioni emotive di Ciccio che non riesce più a contenere singulti deplorevoli. La gente ride, Ventroni, Ottonieri, Giovenale e perfino gli Esse Zeta ridono. Io retrocedo di qualche passo, mi volto verso la parete di legno lucido che sta alle nostre spalle e inizio a sbattere la testa sulla medesima, arreso. Francesco trova la forza per chiedere scusa e va avanti. Quando, pochi istanti dopo, la mia idiozia mi costringe a recitare, Culattomandato com bibidi bobidi bu in luogo del celebre I gay non si incontreranno più qui il mercoledì alle 12.30 siamo ormai due larve piangenti. Tornando al nostro posto evitiamo di guardarci in faccia. Riesco solo a dire tra i denti: “Bella figura di merda”. La Ventroni, prima di dare inizio alla sua lettura, ha il coraggio di spiegare al pubblico che performare qualcosa subito dopo gli sparajurij è molto difficile perché gli sparajurij sono troppo perfetti. Alla fine Ottonieri si complimenta prodigandosi in un’attentissima analisi della nostra neolingua, specialmente sul bibidibobidibu, che a suo dire lo ha colpito in modo definitivo. Il resto sono parole con cui si tenta amabilmente di discettare sui destini della poesia oggi. Noi proviamo a sostenere tutto e il contrario di tutto con l’obiettivo – non difficile – di contraddirci e colpevolizzare il nostro operato, come al solito. Usciamo dalla sala e Ciccio sembra rincuorato perché, a suo dire, abbiamo fatto bella figura. Ciccio è un ottimista, uno che vede luci ovunque (in tutti i sensi). Anche per questo lo odio spesso. La lieta sorpresa è che al banchetto fuori sono state vendute svariate copie dei nostri maledetti libri. Malgrado tutto. Malgrado noi. Malgrado il destino funesto e giustamente incerto della poesia. Ade Zeno