I "giovani", una categoria sociale invenzione della modernità

da "Liberazione" 1 marzo 2001


Nascono con la Rivoluzione francese e diventano categoria sociale nel corso di due secoli. I "giovani" sono un'invenzione della modernità. Nascono con la Rivoluzione francese e diventano categoria sociale nel corso di due secoli. Un vero mito, con un proprio immaginario, dei "giovani" si crea soltanto a partire dagli Anni Cinquanta dello scorso secolo: quando, dopo la Seconda guerra mondiale, in alcune università europee e americane dei "giovani" iniziano a rivendicare un loro status esistenziale con dei valori (e dei consumi) in opposizione a quello dei genitori. Insomma, l'idea del "giovane" non esiste da molto.
Nella cultura latina, al bambino ("puer") subentrava l'adulto ("senior"), considerato solo come soggetto civile, membro a tutti gli effetti della comunità di appartenenza. Non c'era nessun immaginario legato alla sfera della gioventù o dell'adolescenza.
L'adolescente era solo un uomo non ancora maturo, un non soggetto da forgiare e portare a compimento. Lo vediamo anche nelle raffigurazioni medioevali dove, oltre a quella di adolescente, manca anche una nozione dell'infanzia: i bambini sono infatti raffigurati sempre come degli uomini in miniatura, non hanno nessun tratto che li differenzi dai "grandi" che non sia la semplice statura.
Tutto questo per dire che nel corso della Storia di giovani ce ne sono stati pochi.
I contadini, attorno al primo volgere di millennio, andavano a lavorare a quattro o cinque anni, e a quell'età si diventava "adulti". Gli operai, nella prima rivoluzione industriale, venivano "arruolati" a otto nove anni, in qualche caso anche prima. Insomma: fino a tutto l'Ottocento e ben oltre "giovani" erano solo i ricchi non ancora entrati in società. Da allora, la nascita dei "giovani" ha proceduto di pari passo con le vittorie delle lotte sindacali e con l'impegno civile, con la legittimazione collettiva dei tempi propri a ogni individuo (al di là del suo reddito) di "crescita".
E poi oggi. Nella società attuale il "giovane" è innanzitutto un accanito consumatore di prodotti che ne forgiano, attraverso un ampio sistema di manipolazione mentale, l'identità. Un'identità data per vincente, dinamica (in rapporto alle merci). Uno studiatissimo target di mercato "ricco di energia" (e di soldi) e quindi disposto a spendere (molto). "Se si è giovani ci si diverte"; e quindi si consuma. "Giovane" è chi compra dischi, chi va in vacanza, chi si permette e può permettersi di "divertirsi" e di comprare.
Per questo, a fine degli Anni Settanta, sono nate quelle che potremmo definire le prime "fabbriche d'immaginario giovanile": le discoteche, santuari del consumismo dove i "giovani" consumavano (e consumano) i prodotti musicali per loro confezionati. Con la crisi della società industriale, con la globalizzazione e il costituirsi dell'attuale, ansiogeno precario mondo del lavoro si resta forzatamente "giovani" anche fino a trenta quaranta e cinquant'anni. Si aspetta cioè un ingresso in società che però non avviene mai e che pone tutti uniformemente sulla soglia di un sistema che esclude a priori quell'ingresso, inventando curiose e deliranti forme di "eternizzazione" della gioventù.
Con la prospettiva di rimanere per sempre, paradossalmente, tragicamente "giovani" (e cioè disoccupati, e cioè precari, non affrancati nel mondo, mantenuti dai genitori). Il giovane reale (l'attuale quindicenne) vive indubbiamente un senso di incertezza, di precarietà strutturale che squarcia in due il suo orizzonte di progettazione.
Crollano quindi i valori più elementari e la possibilità concreta di realizzarli. Un esempio: come è possibile concepire di mettere in piedi una famiglia se le ragazze, in una situazione di precariato lavorativo sconfortante, restano in casa dai genitori fino a un'età biologicamente superiore a quella che permetterebbe la maternità Non lo vogliamo vedere, eppure è quello che sta succedendo sempre di più.
Tutto questo accade attraverso un immaginario mass mediatico schizofrenico, portato a esaltare modelli generazionali truccati all'inverosimile e comunque fuori dalle vere nuove problematiche sociali (I giovani del "Primo bacio" di Muccino sono, si sarebbe detto una volta e diciamo ancora, "ricchi borghesi". E tutti gli altri?). Perché oggi, a essere esaltati, sono sempre e solo i valori della competitività, dell'aggressività e insomma tutto ciò che porta l'iperliberismo ipocrita in cui ci troviamo a perpetuare se stesso e le proprie nefandezze. Essere giovani, in Italia e nel 2001, è una fatica mostruosa.
Significa accettare un futuro completamente indefinito, mentre definito è il senso di precarietà che colpisce tutti i giovani reali, quindicenni o (purtroppo) trentenni che siano, e li umilia sotto una pioggia coloratissima di merci a corollario di un mondo che ti chiede e impone in continuazione di consumare tutto, e non ti dà la possibilità di produrre nulla (di retribuito, e di sensato).
Essere giovani è una sfida grande.

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