Svegliati spettatore. Michael Moore non è un santo, dice uno scrittore che certo non ama Bush. E “Fahrenheit 9/11” non è un dogma: pensateci su

Michael Moore è uno dei più grandi registi della storia del cinema. Ha tolto il documentario dallo scaffale impolverato in cui stava e lo ha portato ad uno splendore che dai tempi di Leni Riefenstahl (una di tutt'altra parrocchia, in azione più di settant’anni fa) nessuno era mai riuscito a creare. Viva allora Sua Santità Il Più Grande Regista Postmoderno Quentin Tarontino che premia nello stupore generale Michael Moore a Cannes, già premio Oscar sbeffeggiante l’orrido George “dabolviù” Bush in diretta mondiale.
Viva l’attenzione di tutto lo svaccato occidente su Fahrenheit 9/11. Ma Attenzione. Ci sono in gioco cose molto, molto delicate. Innanzitutto, il significato di quanto Michael Moore attraverso i suoi film esprime. Film che sono “documentari” e non “pubblicità”. Film che dunque non hanno e non possono avere nessuna pretesa di seduzione che vada oltre l’esposizione di determinati fatti in un certo modo prima esaminati e poi narrati.
Il “documentario”, infatti, ha più a che fare con la scienza (la vecchia scienza del secolo dei Lumi) che con l’alterato indigeribile sistema attuale delle comunicazioni.
Il “documentario” mantiene una propria purezza nell’evidenza che, come ci ha insegnato il grande epistemologo Karl Popper, è “falsificabile” e insomma discutibile, ancora dimostrabile e da dimostrare sempre. Lontano dai dogmi e dalle religioni. Ora, in un pianeta in cui la merce diventa religione assoluta, in un mondo in cui il Petrolio vale più di qualunque umanesimo, bisogna essere cauti. Si tratta di fare la rivoluzione, e questa volta va fatta bene. Va fatta interrompendo il sistema che ci vede tutti asserviti allo stesso processo di produzione di miti e cose riciclabili a breve, brevissima durata. In questo sistema, le realtà si sovrappongono 1’una all’altra e 1’una con l’altra si escludono a una velocità pazzesca, dove la ragione non c’entra nulla ma è l’emotività a vincerla, la pura reattività inerte dello spettatore. Cioè di tutti noi. Michael Moore, da nuovo illuminista, ci invita invece a pensare. A dubitare. A soffermarci sulle cose, a costruirne infine una memoria. È questo il senso del suo lavoro. Fornendo una sua, non Unica e Perfetta, versione del mondo. Difficile compito. Il compito del documentarista. Che non è Dio. Non è il Salvatore del Mondo dal Male. E chi ci invita a riflettere. Abbiamo avuto fin troppi profeti di carta. Come diceva Giovanni Lindo Ferretti in una bellissima canzone dei CSI: “Non fare di me un’idolo[sic] mi brucerò / Se fai di me un megafono m'incepperò”. Non facciamo di Michael Moore un nuovo santo. Ma ascoltiamolo fino in fondo.

Aldo Nove
su "Musica" supplemento di Repubblica del 16 settembre 2004, p. 46.


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