QUANDO SI SCATENA IL PIACERE DEL TÈ
Sostiene uno scrittore: è una bevanda mutevole come questi nostri tempi. Ed è democratica. Tutti, infatti, continuano ad andare pazzi per il rito, e sono anche affascinati dalle nuove miscele e dalle new granite made in Japan

Avevo sedici anni quando il mio migliore amico ha avuto una crisi religiosa per il tè. Tutto è cominciato con una sua dichiarazione di purismo. Basta bustine, diceva con assoluta serietà. Basta tè filtrato attraverso la carta. Non è naturale. Il tè va comperato così com'è. Va consumato con spiritualità. Come fanno i giapponesi. I giapponesi sì che hanno capito. Il tè. Parlava solo di quello, il mio amico, che sognava di andare in Inghilterra a fare il "naso" per Twinings. Poi gli è passata. ha finito, il liceo, si è laureato e adesso è uno stimato professionista, sposato con prole. Sembrava che la sua vita fosse instradata sui binari di un'appagata normalità. È però tornato all'attacco lo scorso Natale, regalandomi una confezione di "tè di Natale" appositamente preparata da lui per gli amici più cari miscelando cannella, scorze di arancia secche e altre cose, tra cui, ovviamente, il tè. Ed è stato proprio in quell'occasione che ha rispolverato le antiche passioni, intrattenendomi sulla virtù di questa magica bevanda, ricordandomi che il tè è in realtà una forma di introspezione, un modo di conoscere se stessi.
Come di fronte a ogni passione, la ragione non serve. Bisogna prendere atto che il tè si presta al delirio o, meno pessimisticamente, all'entusiasmo dell'adepto. Facendo un paragone con il computer, il tè è una sorta di sistema operativo in grado di sopportare qualsiasi programma, popolare e al contempo raffinato, esclusivo e alla portata di tutti. Qualcosa tipo Windows, per intenderci.
Il tè è insomma una base universale, e universalmente apprezzata, da cui partire trovare la propria formula personale, l'espressione della quintessenza individuale in un'epoca in cui ciascuno vive nella "performance" di se stesso. Ci sono tè di tutti i tipi. Ma sempre tè, con buona pace di tutti, rimangono. Un caso estremo di tè disposto a compiere le più improbabili torsioni per soddisfare tutti i palati è il tè al caffè. Esiste. Se ne trova di diverse marche. Il tè al caffè è un paradosso e un miracolo a poco prezzo. Rappresenta qualcosa che assimila il proprio diretto "concorrente" simbolico (il caffè, appunto) fagocitandolo. Il tè è una pausa di riflessione, un allontanamento minimo dal quotidiano; il caffè è un additivo, un potenziamento vitalistico; il tè è calmo e riflessivo, orientale; il caffè simboleggia l'Occidente e la sua smania di consumo, nella versione "brodo" americana o in quella concentrata, nostrana. Il tè al caffè, insomma, è la suprema sintesi, è tutto (detto tra parentesi, il tè al caffè, fa schifo, l'ho provato: non sa né di tè né di caffè, è un pastrocchio, è il parallelo gastronomico di quelle che in politica si definivano "le divergenze parallele"). Insomma, abbandonando questo caso limite, il tè esprime sempre, con la propria potenzialità di mutazione, con il suo trasformismo gustativo, una profonda e inconscia istanza democratica: quella di riconoscersi tutti nella stessa cosa, anche se per ciascuno "quella cosa" è diversa. "Prendere il tè" vuoi dire partecipare a un rito che chiunque può personalizzare, accorgendosi o meno di fare parte così di una tradizione che muta con i tempi ma attraversa, senza entrare in crisi, i secoli. Sono passati millenni da quando il tè era conosciuto solo in Cina e si pensava fosse una sostanza magica in grado di influenzare i sogni e modificare la vita delle persone, ma il suo misterioso valore evocativo rimane intatto. Evocativo di cosa non si sa. Come la plastica, si adatta a tutto. Come i nostri tempi, continua a mutare.

Aldo Nove
La Repubblica delle Donne, n. 343, 22 marzo 2003.


- torna alla casapagina di Aldo Nove -