I sentimenti
divorano l'anima
intervista a
Aldo Nove
di Massimo Merletti
Aldo Nove, mi parli di “Amore mio infinito”.
«Il romanzo per me ha rappresentato la soluzione ad una doppia esigenza.
Da una parte volevo affrontare un tema che sentivo molto e che mi affascinava
da tempo, cioè quello del momento primitivo dell’incontro tra due persone, argomento
che, come testimonia il libro, ha una sua forza diversa e specifica a secondo
dell’età, cinque, dieci, quindici, fino a ventotto, come ho scritto io, ma che
presumo valga per tutta la vita. Contemporaneamente ho voluto confrontarmi letterariamente
con questo argomento che io considero ostico e stimolante, data la sua assoluta
soggettività e imprevedibilità».
Com’è nata l’ispirazione per questo libro?
«Dalla constatazione che molte volte le sensazioni più belle e più forti
sono difficili da descrivere poiché scorrono nel tempo. L’emozione di un incontro
è unica, dato anche l’impatto che essa ha sulla formazione psicologica delle
persone, e che appartiene all’educazione sentimentale di ognuno di noi»..
Degli amori che incontra Matteo, il protagonista, qual è secondo lei quello
che più si avvicina all’Amore vero?
«Credo che l’idealità dell’amore sia determinata dalla verginità della scoperta,
dal trovarsi di fronte a qualcosa di assolutamente nuovo, e da questo punto
di vista penso che il bambino sia il più suscettibile davanti a questo straordinario
evento della vita. Ma il bello penso che risieda nella possibilità di riprovare
la medesima emozione successivamente, nella maturità».
Qual è il rapporto di un giovane
romanziere con la critica?
«Di spaesamento costante. Sono talmente vari e molteplici i fattori da cui
l’atteggiamento critico dipende, e parlo di amicizie personali, antipatie epidermiche
e difficilmente giustificabili, anche solo nei confronti della copertina del
libro o della casa editrice, che mi lasciano talvolta veramente sorpreso. Scopro,
di volta in volta, amici ed alleati inaspettati ed imprevedibili invidie. In
questo momento in Italia la questione della critica è piuttosto seria. Non esiste
ricambio generazionale, ed i numerosi nuovi scrittori hanno a che fare con sistemi
di giudizio eccessivamente tradizionali, dato che risalgono agli anni Settanta.
I capisaldi sono sempre gli stessi, la critica letteraria non si è rinnovata».
Lei la legge?
«Inevitabilmente, anche perché in quella che possiamo definire come società
letteraria le opinioni ed i giudizi girano velocemente. E poi credo che sia
un’ottima occasione di confronto, a volte produttivo, a volte, magari, mancato.
Anche uno scontro può essere positivo, basta intendersi sulle regole e sugli
argomenti. I pregiudizi personali, a questo fine, non hanno alcuna rilevanza».
Lei crede che la vostra generazione,
quella definita degli scrittori “cannibali”, sia stata sottovalutata dalla critica?
«Sopravvalutata e sottovalutata allo stesso tempo. Il fenomeno è stato molto
considerato, tanto da farne smarrire un po’ i termini esatti. Si è riversato
nel collettivo letterario l’immagine di questi scrittori “cannibali”, ma una
nostra identificazione e definizione in base alla quantità di sangue presente
nei libri credo sia fuori luogo. In questo senso i “cannibali” non sono mai
esistiti».
Che idea si è fatto Aldo Nove
della letteratura italiana contemporanea?
«La trovo molto vivace. Quando io ho cominciato ad occuparmi per diletto e per
lavoro di letteratura, alla fine degli anni Ottanta, il panorama era un po’
desolato e desolante. Ma dall’ultimo decennio del secolo credo siano nate numerosi
voci nuove ed interessanti».
In un’intervista di qualche settimana
fa, Tiziano Scarpa mi ha confessato di ritenere il romanzo un genere troppo
inflazionato. Cosa ne pensa Aldo Nove?
«Credo che dipenda dalla forma di comunicazione. A differenza delle raccolte
di racconti, dei saggi o della poesia, il romanzo è più comunicabile, lineare,
più argomento da salotto se vogliamo. Contemporaneamente è accessibile ad una
quantità maggiore di persone perché è molto popolare. Scrivere un romanzo è
un ‘esperienza conchiusa entro i limiti di una profonda intimità personale,
e questo, in teoria lo porta ad essere più definibile, più “facile”».