Aldo Nove: Fuoco su Babilionia!

Mentre mi indigno, a torto e/o a ragione, circa lo stato attuale della poesia e dell'editoria poetica in Italia, mentre lamento, a parte certe eccezioni che mi paiono sempre più decisive, la mancanza di un lavoro serissimo e rigoroso e visionario e ritmico e vocazionale, ecco che in un'affollata libreria del centro di Milano mi appare la grafica spartana di Crocetti (storico editore di Poesia), con un nuovo titolo e un autore che conosco bene e che sono stato un idiota a dimenticare nelle mie litanie piagnistee: Fuoco su Babilonia! di Aldo Nove è, all'improvviso e storicamente, uno dei libri di poesia che speravo uscissero, prima o poi, a certificare l'esistenza di lirica ed epica in un tempo guasto e una terra guasta come i nostri. Totalmente ripagato: Fuoco su Babilonia! è una pluriraccolta di poesie eccezionali e Aldo Nove è, come da tempo si sapeva, un poeta eccezionale.
Questo è un libro fondamentale. Non è un esordio, ma costituisce uno dei capitoli più significativi nella storia contemporanea della poesia italiana. Ci sono testi da raccolte e plaquette già edite, lette e rilette con l'amore che si porta, intenso e mai definitivo, verso la nostra lingua e verso chi, dalla nostra lingua, sa estrarre musica e visioni, frammenti di verità lancinante e rivelativa, moduli e strutture - insomma, vita. Aldo Nove, a ogni titolo che ha pubblicato, senza distinzioni tra prosa e poesia (poiché nel suo caso non c'è alcuna differenza tra prosa e poesia), ha saputo reinterpretare l'antico atteggiamento e la sapienza eterna (eterna quanto l'uomo) che guida le facoltà alla composizione di un miracolo linguistico. E il risultato è questo Fuoco su Babilonia!: mirabolante incrocio tra contemporaneo (si tratta di una citazione da Sinéad O'Connor) e arcaico (evidente riferimento biblico): che, nel momento in cui davvero fanno fuoco su Babilonia, appare una sorta di inquietante profezia subito autorealizzatasi.
C'è un'inutilmente contorta prefazione di Elio Pagliarani, alla raccolta di Aldo Nove. Settecentocinquanta etichette di teoria paraletteraria che non rendono conto della profondità del prefatore e dell'autentico genio del poeta - tutta fuffaglia altisonante (espressionismo, pop, e via andare di massimalismo semicritico), peraltro mutuata da Luperini e Pedullà. Molto più seria, criticamente accorta e circostanziata la postfazione di Gemma Gaetani, curatrice di questa antologia della poesia omnia di Aldo Nove. La quale Gaetani, non so quanto lucidamente, riprende la nozione di "allegorico" su cui Pagliarani ricama un ordito assurdo, per mettere in evidenza un movimento inconfutabile che Nove pratica nel suo versificare: il rollio degli opposti, l'incrocio e il pendolamento senza sintesi tra passato e presente, tra positivo e negativo.
Quanto ai testi, tutto ruota intorno a uno dei migliori poemetti della poesia europea contemporanea, Madre di Dio, impressionante controelegia, controteologia, contrometrica, controesperienza in cui Antonello Satta Centanin (uno dei vari nomi/pseudonimi del poeta) scatena la forza della sua disperazione, verbalizza per suoni e per rotture di senso e di immagine, catastrofizza l'universo secondo tradizione italianissima, che da Petrarca scende giù fino a Leopardi per saltellare lungo il Novecento. Si tratta di un componimento che risale al 1995 e stravolge per intensità emotiva e retorica e prosodica già dal clamoroso incipit: "Voglio una madre grande / e troia come un fiume / di luce che si slaccia / dal sole e cade dentro / questa giornata morta: // Che spacchi le vetrine dei negozi, che si contorca dentro / il cuore dei passanti, inondando di sangue / il centro di Milano e l'universo. // Madre di Cristo ascolta...".
Alcuni nuclei da fusione calda, di cui bisogna attendere il raffreddamento in forma critica per riuscire a decrittare la lunga parabola che consentirà loro di parlare alla nostra storia poetica: l'utilizzo dell'ironia come strumento antidifensivo dal punto di vista psichico; l'utilizzo della forma tradizionale, chiusa e aperta, come indifferenza verso l'etichetta postmoderna; la ripresa del canto al di fuori della posa dell'inermità; l'inclusione del contemporaneo come antielegiaco, superando l'atteggiamento di consolazione attraverso il tempo presente. Sono impressioni a caldo, appunto: ma bisogna ragionarci sopra, questa poesia lo esige. Frequenti accenni e movenze nella linea De Angelis (uno dei numi tutelari di Aldo Nove), mentre faccio fatica a connettere la poesia di Balestrini, sempre evocato da Nove, tra questi versi che non mi sembrano testimoniare alcunché di avanguardistico.
Ultimo pensierino su questo strabiliante libro di poesia. Perché non sono stati inclusi alcuni racconti di Woobinda? Il canto su Alfredino, per esempio, mi pare a tutt'oggi uno dei pezzi importanti di una storia contemporanea della poesia italiana: perché non compiere il gesto critico più equo, e consegnare alla poesia quelle che, per sberluccicanti estasi marchettare non riconducibili all'autore, non erano affatto prose ma autentici versi senza gli a capo? E' talmente evidente, a chi ha un minimo di orecchio, che i racconti di Woobinda sono poesie!
Indipendentemente da questo desiderio non soddisfatto, che è del tutto personale, bisogna essere felici che, in un momento di gravissimo inabissamento nel nulla da parte della Bianca Einaudi e dello Specchio Mondadori, un editore come Crocetti mandi alle stampe un testo così importante per la poesia italiana. Ci inchiniamo all'autore e all'editore, per l'appunto, in stato di ebetudine e incantamento.

Giuseppe Genna, dal sito www.clarence.it: leggi i commenti al libro e al nostro sito dei lettori di clarence.
Leggi inoltre una recensione incrociata su Nove e Mario Luzi.



Babilonia, la poesia del disordine

Dietro ogni atto autenticamente narrativo (se il 'narrare' sottintende un 'esperire', un sapere provato sulla carne), dietro l'irrevocabilità di ciò che si dà come cosa avvenuta e ora riferibile (resoconto: racconto), raschiata appena la pellicola di superficie, esiste una cosa come l'incisione d'una traccia.
Come un intrico di passaggi; palinsesto di ferite incise l'una sull'altra nel tessuto della lingua, o trama di esperienze e di possibili, scie che si solcano l'una dell'altra. - Una massa in fieri, in/forme, di materiali galleggianti: 'memoria di massa' - moltitudine di voci, destinata a giacere poi sommersa da quello strato di finzione, quel necessario cerone che è in fondo la fiction, ogni fiction ('narrare', anche, è autocostruzione di un posticcio).
Ogni creta scavata di cretti, stesa sotto la pellicola di quel che s'è fermato in qualità di opera, è una materia cioè pluritraumatizzata di percorsi appena imboccati - o segnata, invece, di sentieri solcati tutti fino al termine, per farsene circuito di parola. E il contatto che può accendersi in un atto di lettura, forse è giusto l'istante in cui si scorge l'accesso a questo spazio anteriore, sprotetto, dove una voce si espone all'incertezza del suo emergere, si fonde al mulinare lisergico del senso che la sta bruciando, e si sommuove per plasmare la sua forma dall'oceano di desideri e dis/identità, che la spinge alla luce.
Se deliro adesso queste cose anche un po' Alien (il più creaturale, il secondo), è perché non smetto di scorrere, per lungo e per largo, in avanti e all'indietro, il libro psichedelico dei versi di Aldo Nove, per tutta la svariata gamma e multifuoco delle sue accensioni. "Fuoco su Babilonia!" (dove si riversa, nelle sue molte linee di fuga, un decennio e passa di formazione in poesia, prima che Nove nascesse, 'ex novo', al narrare, attraverso la carne novissima e desertificata del ragazzo Woobinda): non c'è nulla forse oggi, come queste righe intrecciate/divergenti di (vera, ricca, 'formatissima') poesia, che possa render conto di questa anteriorità senza fine del senso (e del sentire), la sua natura compulsiva, oceanica, rispetto alla finitezza degli esiti, là dove una forma ha chiuso il suo giro. - Tanto più se l'opera che viene a nascere (la narrativa del Nove che sarà), lungi dall'essere spazio del finito, dovrà votarsi tutta all'infinito dell'incompiutezza, all'inconcludibile della lacerazione (squarcio nelle immagini, giusto nel punto in cui il loro impero si dà più impenetrabile).
Si sa quanto, in Nove, questa matrice di lacerato e incompiuto si connaturi a un esporsi della lingua (mimetico e straniato, filtrato senza filtri, compassionevole impietoso) alle tormente della merce, cioè ai precetti della sua oscura religione; e allora, "Merceterna", atto finale della raccolta, acquista il preciso valore di punto d'accesso e di sutura (e riscontro e rovescio) rispetto al carosello di spettri di merci poi in atto nei romanzi: e lo stesso, allegorico omicidio-per-bagnoschiuma (incipit proverbiale di "Woobinda") s'inverte qui nell'allegoria di un suicidio di nitidezza pubblicitaria: still-life degradato: sangue misto a Perlana.
Ma ciò che questo "realismo visionario" (Pagliarani in prefazione), nella sua natura di "sogno diluito con l'inchiostro della retina", ci comunica, è soprattutto l'"insulto" quasi prometeico che ogni parola d'invenzione porta all'ordine ('divino') del discorso ("in certo idioma / lombardo 'parola' vuol dire / insulto"); l'invettiva portata contro il nulla (inteso anche come: dominio) - la primaria ribellione, in cui consiste la parola-poesia - appare allora il solo modo di arginarlo, quel "nulla" (sociale, individuale) che "smangia i bordi delle strade": quel "deserto" che è, sempre, la "goccia / che dall'infanzia prorompe / in questa cucina". È per questo, che "bisogna parlare".

Tommaso Ottonieri, su "Carta", Supplemento del Manifesto, 27 giugno 2003.



Il realismo infernale di Aldo Nove
la raccolta di scritti "Fuoco su Babilonia!", proposta rivoluzionaria di una nuova politica della poesia

E' la sperimetrazione e la messa in funzione di un realismo nuovo la scommessa ultima di Fuoco su Babilonia, raccolta della produzione poetica di Aldo Nove tra il 1984 e il 1996, un realismo "infernale", come lo definisce Pagliarani nella sua Introduzione ("mi par proprio che questo realismo vada cacciato, infilato nell'inferno" ), che fa i conti con la divisione definitiva del soggetto dalla sua certezza di percepire ed esperire.
Ciò che è in gioco nella poetica di Nove non è soltanto la sopravvivenza di un testo (o di una forma), la sua efficacia, quanto quella dell'autore stesso (del suo corpo) indissolubilmente legati tra loro dal momento in cui l'orizzonte della morte, del vuoto (e quello dell'autoerotismo) sono rimasti i soli dati certi di Erlebnis: "(...) è manifesto: /finito il tempo in cui tutto capivo / flirtando con il nulla io sopravvivo", per chiosare, appena dopo: "Come poesia, però, non è scadente / almeno testimonia che son vivo / e che ragiono, o forse no / la gente / capisce poco di quello che scrivo / ma quello che capisce è sufficiente". La visionarietà, acutamente individuata da Pagliarani e che certo è uno dei dati più rilevanti di queste poesie e non l'ultima tra le loro molte qualità, non è solo scelta formale, letteraria. È, piuttosto, la conseguenza necessaria di una scelta precedente, quella di sopravvivere e continuare a sognare, che sta alla base di una poesia che non vuole smettere di immaginare, né di guardare dritto negli occhi il mondo. Milano, la Milano in cui si situano tante parole, immagini, pensieri delle poesie di Nove, è, da questo punto di vista, il mondo intero, una geografia di metropolitane, insegne, storie minime che avvelenano di contraddizioni la patina liscia e lucente su cui scorre la quotidianità di un soggetto scrivente non più solo mono-dimensionale, ma addirittura monco, fatto a brandelli, polverizzato in una anonima moltitudine. L'autore sembra accedere ad una sorta di lirismo collettivo e degradato, struggente, realizzato grazie a un abbassamento vertiginoso del punto di vista, sino ai suoi livelli più strettamente "biologici" e dunque comuni, in cui il quotidiano è spesso sinonimo del- l'eccezionalmente straziante, espresso da una lingua resa anodina e quasi zoppa dall' azione devastante di un attrito polverizzante, la lingua di quella Babilonia contro cui fin dal titolo si schiera chi pur la utilizza, facendole raggiungere, col mira- colo paradossale del rovesciamento, addirittura timbri politici, o, se preferite civili: "Mettendo dentro 120 grammi / di penne Buitoni nel mio piatto / guardai la tele tutto soddisfatto: / "O Berlusconi, dio mio, dammi // le 200 cosce dei miei sogni / quotidiani" supplicai, e venni / appena le danzanti quindicenni / riempirono lo schermo. (…)".
L'abbassamento formale è dunque condizione esclusiva di salvezza dei residui di contenuti alti, di quei pochi valori che ci sono rimasti tra dita e linguaggio. L'utopia, per Aldo Nove, abita oggi nelle favelas di una parola aspra, povera, spesso maleducata ma sempre allegoricamente argutissima, capace di pensare insieme lo scacco e il sarcasmo di una recidiva utopia: "Chi muore è volgare // (...) .// la gioia non ha bisogno, / di noi".
E se, nella sua attenta postfazione, Gemma Gaetani indica Giudici come una delle fonti a cui si è abbeverata la: sete di reale e di quotidiano di Nove, a me viene in mente piuttosto Gozzano, se non altro per la risentita e quasi fiera coscienza del degrado dell'arte letteraria, per la vergogna che fa da carica a un sarcasmo travolgente, beffardo, disperato almeno quanto recidivarnente ribelle. Quasi che, ad alIontanarlo dal lombardo, sia, prima di tutto, una questione di "velocità": "o / Giudici, quanto dura / nei secoli / quella cacca sul tappeto?" chiosa malvagia una lirica di Tornando nel tuo sangue. Mentre è certo che Nove ami e si nutra di Rosselli, Bene e Campana, tutti assolutamente "infernali". Così come, a ben guardare, ciò che pur c'è di lombardo assume, piuttosto, in alcuni tratti, accenti e timbri schiettamente villiani "Madre di Clivio e di Gerusalemme, / Madre di Betsabea e di Baranzate / Madre delle Bustecche e di Betlemme, / Madre del Monte Nero e di Malnate // Madre del Crocifisso e della strada / Che va dal tabaccaio a Primaticcio, / Dove alle sei la ! sera si dirada / al primato di nuvole rossiccio".
L'ultimo residuo di perfezione è la donna, la sua corporeità, ma anche il suo modo di vedere il reale di interpretarlo, miscela, quasi alla Almodovar, della Mosca montaliana e di una Beatrice il cui miracolo sembra essersi ridotto ad una scheggia di piacere e di utopia. È questo il retroterra che dà vita a quello che certamente è lo chef d'ouvre di questa raccolta, Una volta soltanto, blasfema e mistica preghiera che è una vera dichiarazione di poetica: "Voglio una madre grande / e troia come un fiume / di luce che si slaccia / dal sole e cade dentro / questa giornata morta: // Che spacchi le vetrine dei negozi, / che si contorca dentro / il cuore dei passanti, inondando di sangue / il centro di Milano e l'universo. // madre di Cristo, ascolta... (..) madre dei padri e delle madri, madre / dei figli e delle figlie. (.. .) ".
Questo libro, insomma, non è solo una raccolta di belle poesie, è la cronaca di uno strazio e insieme delle ragioni per continuare a resistergli: È un libro fatto di coraggio, almeno quanto di parole. Sposati dall'equilibrio apparentemente miracoloso, di un linguaggio d'assenze e attriti, che, in mancanza d'esperienze, si fa esso stesso esperienza terminale, atto. Quasi fosse la proposta rivoluzionaria di una nuova politica della poesia e di una possibile poesia politica per il medioevo prossimo venturo.

Lello Voce, su "l'Unità", 17 luglio 2003


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Aldo Nove - Fuoco su Babilonia! - Crocetti - 14,50 euro


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