INFANZIA NEGROMANTICA NEL COSMO DI VIGGIÙ
In cinquantuno frammenti lirico-primitivisti Aldo Nove sublima (un po' alla Robert Walzer) i suoi dieci anni, in una provincia sconfinata e terribile

"1967. Onde emigrano dal cuore. Doppiamente velate nelle vene. Respirate, mangiate, rapprese a tocchi di buio animale […] Acqua che trasborda e cresce, che è primordiale. […] Terra. Approdo e dirigibile neurologico, infantile. Viggiù. Mia madre". Così iniziava Bio di Aldo Nove, dieci pagine splendenti nel volume Il '68 di chi non c'era (ancora), tratte, si leggeva, dal "romanzo Bio di prossima pubblicazione presso l'Einaudi". Passati sei anni, di quel "romanzo" di Nove non s'è vista traccia. Né, forse, si vedrà mai. Ma è come se quella materia incandescente, quel fosforescente plasma immaneggiabile continuasse a irradiare, a distanza, l'opera dell'unico scrittore autentico nato ai tempi chiassosi del marketing "cannibale".
E in certi punti di quest'ultimo, meraviglioso La più grande balena morta della Lombardia si può avere l'impressione che certi materiali siano stati direttamente esemplari da quel censuratissimo Libro della Memoria. Ad accomunare i cinquantuno frammenti è infatti la totalità lirico-primitivista - virtuosamente artefatta del poëta doctus di Fuoco su Babilonia! - che già punteggiava, a chiazze, le sue prose più distese; e che la linguista Valeria Della Valle (in uno dei pochi contributi utili contenuti nel reader appena curato da Elisabetta Mondello per Meltemi, La narrativa italiana degli anni Novanta: che schiaccia un panorama complesso sul fenomeno "cannibale" riducendolo una volta di più, peraltro, alla sua vulgata sociologistica) descrive come un tendersi del "parlato di coloritura lombarda" sino a "una sorta di monologo interiore": ritmato, infatti e tendenzialmente asindetico, analogico. Ecco per esempio, Una vera mancanza d'infinto: "l vita era come un cartone animato in una videocassetta guardata troppe volte ma non si poteva togliere dalla tele essendo la vita reale, io avevo u maglione verde e sentivo l'oppressione della fine di tutto questo agitarsi umano".
Rispetto a Bio però, varia il piano dell'elementarizzazione. Pochi casi come questo dimostrano che non esiste, linguisticamente, un "grado zero" oggettivo. Se la voce di Bio perturba tanto è proprio perché, non riconoscibile per l'età o status, si avvicina il più possibile all'astratto "zero assoluto" di un qui e ora; laddove Woobinda (esordio datato '96) non è che la stilizzazione di uno o più personaggi (semianalfabeti serial killer: caratterizzati dunque, diciamo, per milieu). E tuttavia è ormai ridottissima la distanza dal cuore di tenebra di Bio: il personaggio della Più grande balena non è che la ricostruzione autofilologica di un archeo-Nove "autentico" (con tutte le virgolette del caso) ma congelato, frizzato attorno ai dieci anni d'età (la madre lo chiama "Anto": Antonio Satta Centanin è l'ortonimo di Nove). Come sempre la sua voce proviene, dunque, da una zona morta. In questo caso l'infanzia dopo che è finita: tumulata in un sacrario di reliquie merceologiche (i 45 giri di vinile bianco, i robot giocattolo che -come in Little Soldiers di Joe Dante- muovono alla conquista della terra, ecc.), tesaurizzate entro una sezione aurea circoscritta con pietosa acribia (1972-81).
Questi ridarla voce da dopo, per via negromantica, consente a Nove di sottrarre l'infanzia all'oleografia naturalistica cui l'ha per esempio piegata un più furbo compagno di package, l'Ammanniti di Io non ho paura; restituendole invece brividi di stupore assoluto. Il "piccolo mondo" lombardo così assume proporzioni sconfinate, terribili, cosmiche. Come nel frammenti iniziale, che al libro dà il titolo: dove "una balena morta […] grande due o tre volte il sistema solare" morta nel "Giugno 1972", esce dallo zoo di Como per divorare la Lombardia, la terra, "e tutti i pianeti e le stelle e i buchi neri fino a quando non si ritrovò sola davanti a Dio". Alla fine, mangiato anche Dio, "non c'era più niente, ho messo la tutina della Chicco e sono uscito dal nulla assoluto…": clausola micromegalica che può evocare il Canto del gallo silvestre leopardiano…
Già Bio aveva evocato "come una bolla una boccia dove guardavo muoversi le cose che erano il mondo normale"; ora a Viggiù "era come essere all'interno di un acquario che era l'intero universo con il mondo piccolino nel centro logorato dal tempo e noi sopra, in provincia di Varese, mentre tutto piano piano si dissestava". Straniamento prospettico certo riconducibile appunto alla linea che va da Leopardi a Pascoli (il risvolto: "quel bambino inquietante non è altri che la parte rimasta buona di noi stessi, e disposta alla meraviglia"). Ma si pensa anche a un'altra tradizione, a un diverso grado zero: quello di Robert Walser che compita I temi di Fritz Kocher simulando il candore di un quattordicenne; come ha spiegato (in un intervista sul sito www.zibaldoni.it) Bernard Echte, "ripetendo i cliché […] dell'opinione pubblica […] la sua lode e la sua meraviglia hanno qualcosa di […] sinistro. Ogni sua frase ha dunque una sfumatura in qualche modo politica".
Non si pensa a walzer solo perché in uno dei frammenti più allusivi (dedicato alla paura di "rimanere orfani": buco nero, tabuizzato dalla scrittura, che al cosmo di Viggiù porrà fine) figura appunto un orfano in imbarazzo, il giorno dei pensierini sui genitori. Vi si pensa soprattutto per uno (a Nove non nuova, ma mai così esplicita) dimensione "in qualche modo politica", nella quale riescono a penetrare acuminate punte del traumatico universo reale di quegli anni, pur se deformate dal filtro straniante: dalle voci '77 su un certo Toni Negri "che gli usciva il fuoco dagli occhi e uccideva tutti gli abitanti" all'arresto mediatico di Enzo Tortora. Segnata a dito è soprattutto l'inavvertita maledizione che cala dalle tenebre quando dalla terra degli antenati il nonno porta "una scatola che da spenta non era niente ma accesa le persone lontane erano fatte di luce e ballavano […] e gli altri pastori lo prendevano in giro senza nessuna fiducia nella potenza dei sogni guasti a cui […] si sarebbero abbonati tutti gli abitanti della Sardegna e del mondo". È nell'ammiccare guasto degli schermi dunque, che il bambino di Viggiù fa la più grandiosa e spaurente delle scoperte, quella del Male.
Ne discendono precisi corollarî (come l'apologo sull'ambivalenza umanitaria che si intitola Il gatto orrendo; anche Walzer diceva di scrivere "per il gatto", cioè per tutti e per nessuno), e soprattutto un finale che si vorrebbe citare più a lungo: "andando in via Sant'Elia a un certo punto c'è una porta rossa arrugginita […]. È la porticina dei morti di tutte le guerre […]. In mezzo c'era una strega che diceva che era la luce della gloria, era la luce della libertà e della vita, della pace ma quella era una strega che non capiva niente, e le usciva il sangue dalla bocca ma solo io capivo […] Lei era più potente di Dio/ e diceva di essere Dio/ e che esisteva da sempre". Di recente sull'Unità, Romano Luperini ha sostenuto che gli scrittori non sanno più affrontare la storia mentre questa si produce. Certi scrittori si sono offesi per la loro lesa maestà. Nove, invece, risponde come sa. Cioè scrivendo: con la sua testa e la sua lingua (non quella dei grandi di trent'anni fa). Per esempio dando forma dietro quella porticina, all'incarnazione odierna del cattivo demiurgo, Old Nick, Berlicche: niente meno che Arimane.

Andrea Cortellessa, su "Alias", supplemento de "Il Manifesto", 27 Marzo 2004




GLI ORFANI DI NOVE FRA LUCI E STRAPPI

Mettiamola pure così: il libro inizia con la descrizione (concitata) delle fine del mondo e finisce con la condanna delle guerra e un inno alla pace. Ma è una lettura banale come è banale dare un senso logico alle fantasie di un bambino, riconoscendovi contenuti cari agli adulti. In questo tranello noi non cadremo resistendo ai reiterati tentativi di Nove di farci cadere. Preferiamo stare ai "fatti" (anche se fatti non sono). Il libro (non è un romanzo, non una raccolta di racconti… forse una selezione di aforismi?… non so) che ho appena letto è una lunga reverie a occhi aperti di un bambino di Viggiù (un piccolo e povero paese "in provincia di Varese vicino alla Svizzera") sul mondo che gli gira intorno. Il bambino ha forse 10 anni ed è di umili origini, condizione che favorisce una curiosità sempre più divorante. Così può vagare e vagabondare con passo svelto ma pacato tra i tanti e vari aspetti del mondo degli adulti. Anzi più che curiosità per lui è bisogno di appropriazione comunque di arrivare a una resa dei conti. Intanto con gli adulti. Chi sono? Certo il padre, la madre, i fratelli, i nonni e gli zii. Ma continua a chiedersi chi sono finché scopre che "uno dei vantaggi che hanno gli adulti è fare le cose che fanno male". E la vita che vuole, che ci fa? "…la vita era come un cartone animato in una videocassetta guardata troppe volte ma non si poteva togliere dalla tele essendo la vita reale". E il mondo? "…quando esce la sborra nascono i figli diceva il mio compagno, tutte le persone che vanno in giro a fare disastri nascono […] e a loro volta si sposano e attraverso la sborra fanno continuamente altri figli che quando sono grandi esce anche a loro la sborra e tutto questo, si chiama Mondo". E come nasce il mondo? "Prima di tutte le persone e prima di Dio, esisteva solamente il Padre di Dio… E dal nulla il padre di Dio faceva dei giocattoli antichissimi per divertire Dio quando è nato e li ha messi in una scatola che era un Piccolo Chimico Universale. Dentro la scatola c'era l'universo da scaldare e dei piccoli cristalli di sale con dentro i pianeti e le aurore… E Dio li ha presi tutti per giocare ma Dio non era capace. Ed è esploso tutto, all'inizio ci fu l'Incendio Universale".
Risolta la sua curiosità sulle questioni fondamentali il bambino di Viggiù non si fa sorprendere dagli altri aspetti della vita quotidiana per ognuno dei quali raccoglie rassicuranti deduzioni. Così per il lavoro ("Ogni giorno un ragazzo tornava dalla fabbrica… si chiudeva in camera sua… e gridava che la fabbrica doveva esplodere"), per il giuoco, per il gran consumare ("Dopo che non c'è più posto per mettere le cose bisogna trovare una soluzione… E vengono creati gli inceneritori"), per la miseria, per la solitudine, per la droga, per la malattia, per il comunismo ("…mia nonna mi ha detto che non dovevo parlare con Giovanni perché era comunista"), per l'infelicità ("Nelle mia classe c'era un bambino che era orfano e un giorno la maestra ci ha fatto fare i pensierini sui nostri genitori e tutti prima di cominciare guardavamo lui che guardava il banco […]. Allora ha scritto sul quaderno la frase mio papà è impiegato al cimitero ed è uscito dalla classe facendo una scorreggia").
Avrete capito che questo nuovo Nove è un libro davvero non comune con punte di poesia (sì, di poesia o chiamatela come volete pensiero incantato o sublimato o altro), come quella appena indicata del bambino orfano, davvero notevoli. È un combinato particolare che offre leggerezza e piacevolezza (perfino sospetta) e luci e strappi feroci. Lì per lì ti impensierisce e fa perplesso la gradevolezza del dettato e ti chiedi se l'autore non sta facendo il furbo approfittando dell'effetto "seduzione" garantito dalla deformazione infantile del linguaggio. Un carezzevole miagolio ti gratta le orecchie ma poi, come si fa con i gatti, dopo un po' di reciproche fusa, ti scocci e lo allontani magari con malagrazia. Ma andando avanti e tanto più vai avanti ti rassicuri e ti convinci che l'autore ha costruito e sta costruendo un linguaggio crudo attraverso l'arretramento al suo stato basico (di base), verso una parsimonia (un impoverimento) lessicale e sintattica che insieme lo alleggerisce e fa più mobile (e impertinente). Gli attribuisce una carica farsesca che mette in forse e destabilizza tutto ciò che nomina. E se fa sfoggio di una articolazione elementare (grazie alla quale trova la strada per sintesi altrimenti impossibili), evita comunque e sempre facili solecismi e altre vezzose improprietà. Un linguaggio che mi ricorda quello di Giuseppe detto Giuseppe di Salto Mortale di Luigi Malerba in cui la pronuncia sconnessa e disarticolata del protagonista è la denuncia di una più generale deriva. Ma insieme al Malerba fin dalla lettura delle prime pagine, appena già cominciano a rotolare le prime ingenue "sentenze", il ricordo che mi sale (con l'arbitrarietà dei ricordi) è Lo sciocchezzaio di (raccolto da) Flaubert anche se qui si denuncia la stupidità dell'intelligenza e nel Nove si esalta l'intelligenza della stupidità. Voglio dire l'intelligenza dell'innocenza, questa visione dal basso che poco vede e quel che non vede (che è quasi il tutto) immagina e fantastica, creando deliziosi non sense e meravigliose bugie. Capita poi che le due imprese qui e lì collidono: chi può dire a quale delle due appartiene questa sentenza (chiamiamolo pure raccontino): "L'agnello è mangiato dal Lupo. È questa una prova della bontà della Provvidenza: così sfugge alla malattia e alla vecchiaia"? Ma Nove non si metta delle idee sbagliate in testa e per non fomentare equivoci impropri scopro subito che quel raccontino è di Flaubert (appartiene Lo schiocchezzaio). Comunque Nove che con Amore mio infinito avevamo perduto, qui lo abbiamo ritrovato.

Angelo Guglielmi, su "TuttoLibri", supplemento de "La Stampa", 10 Aprile 2004





- torna alla casapagina di Aldo Nove -