Lo stile Queneau

"Hermétique ne suis hermeneutique accepte": senza ermetismo, soggiogarsi all'ermeneutica: il motto che Raymond Queneau (matematico surrealista e post ed enciclopedista eccentrico - redattore, direttore di opere enciclopediche - e in questo, unico in grado di raccogliere l'eredità di Denis Diderot, architetto di paradossi) incastona in apertura (quasi) del terzo dei sei canti della Piccola cosmogonia portatile (1950) introducendo la sua prosopopea esemplare di un Hermes, insieme, Mercurio e Trismegisto - e dunque, indissolubilmente metallo e pianeta, fecondatore e psicopompo, dio (aspecifico) e mago (iniziatico), e poi, via via, patrono della retorica e maestro del sapere alchemico - questo verso configura, forse, l'impresa più credibile, e sicuramente la più esposta, per un lavoro veramente irripetibile (per quanto, per suo statuto, serializzabile), come questo del futuro fondatore dell'Ouvroir de Littérature Potentielle.
Questa impresa sapientissima va a desinare, cioè, qualcosa come un ermetismo latente e auto-decostruito, che dichiari le leggi stesse della sua natura occulta, e consegnato, subito, all'apriscatole dell'ermeneutica, per far luce sulla sua "difficile chiarezza" (Calvino). Del resto, l'itinerario quenoiano documenta un logaritmo unico, che non potrebbe darsi fuori dello stesso miracoloso punto astratto d'equilibrio (cosmico-comico-numerologico) che la sua opera segna nello spazio letterario "e" potenziale; un itinerario che, trapassando la viscerale mitoantropologia del "torbido" avanzata dal gruppo batailliano di "Documents" (a cui Queneau aderì nel '29 all'indomani della turbolenta rottura con Breton), si sarebbe volto a convertire i divincolanti psicoautomatismi della pratica surrealista nei vincoli fittizi di una letteratura sempre avvenire, sempre (appunto) "potenziale", Tutto, nella costanza di luce che non cessa di promanare il paradossale astro di Jarry (OULIPO. stesso nacque come commissione del Collegio di Patafisica), seguendo la musa umorista nei suoi estri più onnivori e ipertrofici: se "lo humour è un tentativo di epurare i grandi sentimenti della loro coglioneria" (e Barthes, a osservare come a questo grande artefice sia propria "la natura di far incontrare e allo stesso tempo respingere la serietà e la comicità"), l'umorismo numerologico, potenziale nel senso (anche) di esponenziale, di Queneau, suscita qualcosa come uno spazio di debordamento, di perdita micro-cosmologica, per quanto dimensionata a fruibilità - appunto - di "portatile".
Così, "avere un sistema limita il proprio orizzonte; non averne nessuno, è impossibile; la miglior cosa, è di possederne diversi", scrive lui nel journal; l'esercizio di stile (l'opera del '47 - novantanove variazioni di un incidentale microracconto - anticipa di un anno la costituzione del Collegio di Patafisica, e contiene tutti i presupposti della paradossale poetica dei vincoli, della "contrainte", che sarà esposta assai più tardi in OULIPO), questo "esercizio", lungi dall'essere il dispiegarsi annichilente (e nichilista, nel caso) di un formalismo che si ripiega su una cronicizzata patologia di autovariazione, corrisponde alla stessa ansia di liberazione at- traverso i numeri, attraverso i vincoli (e nel vicendevole annullarsi, insomma, di numeri e di vincoli e di cifre eventualmente esponenziali potenziali): l'unica possibile, quando il simulacro bifronte della Musa di una modernità ancora tardoromantica (soggiogante al fantasma- poi bunueliano, anche - della "libertà" espressiva occidentale, o dell'"ispirazione") ha mostrato, con l'evento bellico (e con i suoi presupposti irrazionalistici), la potenza del suo volto incenerente.
È per questo che la furia classificatoria, numerologica, dà luogo alla fuga (musicalmente, e non), apre all'inclassificabile: una fuga dalla norma, dalla classificazione, giusto attraverso un'adesione assoluta fino all'eccesso alla norma, alla classificazione; propugnata, quest'ultima, proprio perché inventata, imposta, autoridicolizzantesi, astratta... Se in un'opera letteraria la cosiddetta ispirazione dovrà adattar- si ad una serie di procedure e costrizioni, "contraintes" (siano esse grammaticali, lessicali, o di struttura), l'obiettivo ormai dovrà essere quello di modificare tali limitazioni, ormai usurate; OULIPO (da Queneau autore fondata nel 1960 assieme a François Le Lionnais matematico-scacchi- sta) potrà irrompere allora quasi "congegno bellico contro i vati ispirati" (e come "apologia dell'homo faber"): svelando, "scandalosamente", come l'immaginazione e appunto l'"ispirazione" non fossero che il prodotto di una serie di vincoli e di ostacoli, da reinventare e deliberare di continuo, se ci si vuole sottrarre alle invisibili barriere delle convenzioni ricevute, se si vuole rimettere in moto l'immaginazione... Tesi sorprendente e a tal punto patafisicamente "ovvia", da essere complicatissima e terribilmente eversiva, se attenta é alla fissità del Canone giusto dall'interno dei processi che lo hanno formato, e che lo regolano; in questo, i micidiali Centomilamiliardi di poesie - dove le leggi della combinatoria sono utilizzate per "moltiplicare" illimitatamente (infinitamente no, perché "l'infinito non esiste: l'universo è finito benché illimitato" - ed è solo un altro dei paradossi ateologici di Queneau...) un numero finito di sonetti, rendendone i versi intercambiabili - sono l'opera forse più scandalosa ed estrema, per un cultura che ha (disastrosamente?) eretto a feticcio il fantasma (appunto) di una illimitata, ma occludente, libertà formale (quando invece, solo lo "stile" è in grado di trascendere, omeopaticamente, se stesso...).
In questo spirito ineffabile di geometria (e, al fondo, di eccedenza dagli stessi 'im- possibili' geometrismi suscitati), nel tempismo metronomico della propria orologeria testuale (in tutte le sue derive, i suoi debordamenti), Queneau volle consegnare al suo secolo, nello scadere esatto (1950) della prima metà di esso questa "cosmogonia" in formato tascabile, dentro cui si zippasse il sapere scientifico all'altezza di quella modernità. "Impossibile" remake lucreziano, ricompresso con gigantismo gargantuesco per un pianeta che rinasceva dalle ceneri della guerra, e ritradotto in una piccola batteria di artifici linguistici e di fuochi (non solo) d'artificio, se Queneau è quel "grande artificiere che ci insegna a muoverci nella lingua come in una polveriera", di cui diceva Eco nel tradurne gli "impossibili" Esercizi di stile.
È questa cosmogonia in forma elastica di verso - astronomica geologica chimica biologica tecnologica, e poi, eccessiva, patafisica, classico parodica - dove la matrice lucreziana, esibita fino a puro remake, si polverizza nelle stringhe di comicità (diciamo) pànica, o appunto rabelaisiana, e autodestrutturata della lingua (lingua intrinsecamente antipoetica, giusto quando espande fino all'inverosimile le sue stesse possibilità poetiche...) - è forse soprattutto questa portatile polveriera di cosmolinguistici artifici a esplosione multipla, che riaffiora oggi dal magma del '900, riproposta "finalmente" in una collana di poesia (la einaudana bianca), a celebrare i cento anni potenziali del grande "artificiere" del Moderno. È qui, allora, che, piantato al centro di questo ultracompresso spazio intergalattico terrestre, Hermes sta a enunciare il nuovo "vincolo" poetico "non ermetico": "Si parla della fronte e pur degli occhi, / del naso e della bocca, e perché no / di cromosomi? Di Minosse parlasi / e di Pasife" (di albatri, di battelli ebbri), "e allora perché non / l'elettromagnetismo?": i confini del (poetico", ampliati fino alla vertigine (esponenzialmente alla radice quadrata), nell'orizzonte di una modernità post-umanistica e più (laicamente) arcana; e forse è giusto da questo poemetto dezippabile all'infinito, dalle sue osmosi, che s'installa un'ermeneutica nuova, criptica, e infinitamente più aperta, per la modernità e - quale che sia - il suo dopo.

Tommaso Ottonieri su L'Unità di Venerdì 21 febbraio 2003.

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