Tommaso Ottonieri, In fuga dai Non Luoghi
intervista a Marc Augé

Incontriamo Marc Augé col suo "Diario di guerra", libro che, con andamento aforistico e insieme divagante, attraversa gli scenari di un pianeta traghettato, con l'11 settembre, da un "prima" a un "dopo", dritto nel tempo bellico e paranoide di una Giustizia Infinita, di un assurdo "immaginario profetico"; e individua la posta in gioco, la necessaria utopia da realizzare, nella costruzione di uno "spazio pubblico planetario", un'agorà universale della presenza e dello scambio ["spazio materializzato del dibattito pubblico"], capace di ricucire la stessa svuotante frammentazione dei "nonluoghi", tipica espressione del sistema-globalizzazione. L'"antropologia del surmoderno" di Augé registra nel giro di boa nei millenni, raffigurato appunto da quel crollo catastrofico, il passaggio da una ipertrofica produzione di "finzioni" simulacrali da parte di un avvolgente sistema-informazione [vedi il precedente "Finzioni di fine secolo"], ad un più arcaico lavoro di metabolizzazione [autoritaria] dell'"avvenimento" catastrofico.

Quale è il senso di questo passaggio? E in che senso "nulla sarà più come prima"?

C'è senz'altro, oggi, un legame fra la nozione di finzione e quella di avvenimento; diversi avvenimenti non esistono se non attraverso la loro elaborazione "narrativa" [i racconti che se ne fanno, attraverso la loro presentazione e le narrazioni secondarie qui traggono origine da essi]; vediamo che questo lavoro avviene, per lo più, attorno a quegli avvenimenti che chiamiamo "fatti di cronaca", quei "falsi avvenimenti" mondiali [diversamente] elaborati da una parte all'altra del mondo.
Più che la veridicità dell'accaduto, importante qui è il lavoro di costruzione su scala planetaria dell'avvenimento: e la domanda che ne viene è che cosa sia, "realmente", un avvenimento. Vi sono degli avvenimenti "reali", di cui si riscontra retrospettivamente l'importanza su di una scala planetaria. Il '68 è stato un avvenimento che ha dato luogo a migliaia di racconti e di interpretazioni e che non ha avuto la stessa forma nelle diverse parti del mondo, ma che, in quanto riferimento "mitico" [i miti sono quei racconti che hanno innumerevoli versioni…] riveste un ruolo nell'immaginario planetario [e infatti, si può evocare il '68 in parti del mondo molto diverse…]; un avvenimento di questo genere è stato il 1989, con la caduta del muro di Berlino e il rivolgimento degli equilibri planetari, di cui si è presa coscienza progressivamente, un avvenimento che dà luogo ancora a racconti e interpretazioni di tonalità molto diversa, e spesso opposta, ma che rappresentano un riferimento obbligato, uno snodo.
Questi avvenimenti-chiave hanno qualcosa in comune: li si definisce con la data, l'anno oppure il mese; perché - come li ho definiti in "Diario di guerra" - sono "avvenimenti-mutazione", che cambiano il corso delle cose, e s'incidono sull'immaginario planetario come sulla superficie di una lapide.

Ma insieme, se non vado errato, si rimarca in essi una sorta di energia numinosa, quasi una forma di metafisica eversività...

Appunto: ciò che c'interessa in una nozione di avvenimento come questa [e qui parlo un po' da antropologo], è di considerare che, in fondo, tutte le apparecchiature rituali messe in moto presso le piccole società [ma trasponibili anche sulle più grandi], i comportamenti rituali e le istituzioni che mettono in opera i riti, ossia organizzano attività rituali, hanno piuttosto il fine di annullare gli avvenimenti, la loro temibile unicità.
A questo quasi mai facciamo caso, perché tendiamo a ritenere che molti dei comportamenti rituali cercano di spiegare gli avvenimenti; ma spiegare un avvenimento significa reinserirlo nella catena delle cause e degli effetti: ricondurlo all'ordine "normale" delle cose [così, in società non industrializzate, gli avvenimenti da sottoporre a trattamento rituale erano dei fatti sentiti come incomprensibili, ossia disgrazie, tanto collettive quanto individuali: la malattia, la morte]. Spiegare l'inesplicabile significa rendere nullo l'avvenimento, perché l'avvenimento è la contingenza assoluta: ed è la contingenza, quella che va eliminata, per ristabilire la continuità della catena; gran parte dell'antropologia religiosa lavora su quell'attività, che è vitale e d'ordine "logico", da comprendere alla luce della sua efficacia, diciamo, sociologica.
Perché, insomma, a livello individuale non meno che collettivo bisognerà analizzare ciò che chiamiamo i rituali religiosi come delle attività che hanno come fine di dominare e di annullare l'avvenimento; di reinserirlo, infine, in un ordine non naturale ma simbolico, che rientra cioè nel simbolismo ammesso dal gruppo.
Oggi, in questi grandi avvenimenti planetari [e nei "fatti di cronaca" non meno che negli eventi che danno l'impressione che qualcosa nel pianeta stia mutando], io trovo la stessa tensione: da un lato, bisogna accettare che si tratta di avvenimenti che cambiano qualcosa e, dall'altro, bisogna rifiutare che siano avvenimenti che non si possano dominare e dunque neutralizzare.

Ed eccoci, appunto, all'11 settembre...

Nel caso dell'11 settembre ciò che mi ha interessato è che si manifestano compiutamente questi due movimenti in opera: ciò che ci colpisce di questo avvenimento è la sua enormità - un evento planetario, che colpisce simbolicamente al cuore del sistema della globalizzazione [World Trade Center, non a caso] -, ma anche che nelle reazioni suscitate dall'evento vi sia lo choc e l'indignazione, da una parte del mondo, e, dall'altra parte del mondo, una certa esplicita soddisfazione [o, quanto meno, una certa indifferenza]. E dunque, che sull'avvenimento si sancisca una fondamentale frattura del pianeta.
Nella messa in racconto di un avvenimento come questo, c'è la ricerca dei responsabili, che dovrebbe concludersi in quella riduzione dell'avvenimento, di cui ho detto; ma è là che sorge una difficoltà, dovuta al fatto che l'avvenimento appare privo di reale rapporto con le spiegazioni fattuali, al punto che si rinuncia a procedere all'analisi delle cause che lo hanno prodotto. La tecnica utilizzata è quella di trasformare un punto d'arrivo in un un punto di partenza: si designa un responsabile, e di colpo l'avvenimento non è più il punto d'arrivo di una storia, ma è già il punto di partenza di una storia ulteriore [quella della "giustizia infinita"…]; non si è nella ricerca delle cause, si è nel racconto delle conseguenze.
È in questa logica che noi siamo presi: una logica che non ha più rapporti, se non lontani, con l'11 settembre, e fa parte di una storia più vasta, la lotta contro il terrorismo mondiale in cui il crollo delle Torri è un avvenimento chiave, che però non necessita più di interpretazione. Eppure, la strategia anti-avvenimento non può annullare del tutto l'impatto di avvenimenti come questi, proprio perché essi generano altri racconti…

Questi macro-avvenimenti, nel loro rimanere irrisolti e inspiegati, aprono, insomma, nuovi ordini di avvenimenti. Ma è possibile supporre, "dall'altra parte", qualcosa come un moto opposto e insieme convergente: ad esempio nel blackout informazionale osservato dalla parte "terrorista" nel mancare di rivendicare quell'attentato e tantomeno di spiegarne le ragioni: quasi a produrre una inquietante sensazione di spaesamento semantico…

Il paradosso della rivendicazione mancata [o indiretta] è che si lascia alla parte che ha subìto l'attentato la responsabilità di designare un colpevole; secondo una strategia che mira a incrementare quella sensazione di caos, che è anch'essa una spiegazione nell'ordine del 'naturale' [che fa risaltare la brutalità della contingenza]: quasi che si progettasse di 'creare' avvenimenti dotati della brutalità [imprevedibile, incomprensibile] dei grandi disastri naturali.
La risposta del potere, allora, ha luogo appunto nell'ordine retorico: essa consiste nel trarre dall'ordine della natura le denominazioni per le sue operazioni di rappresaglia ["Tempesta del Deserto"…]; o di trarle, altrimenti, dall'ordine della divinità ["Giustizia Infinita"], per inserirci nel "grande racconto" che essa sta sviluppando a un livello che vuole mitico, superno, quasi inattingibile. Perché anche stupefacente, nell'attuale planetarizzazione, è l'intensificarsi della dimensione religiosa: se è vero che non siamo [ancora?] allo scontro diretto fra religioni, è vero anche che il linguaggio religioso è qualcosa che permette di universalizzare il dibattito locale.

Da un lato vi è la sensazione di un mondo di circolazione senza fine [la cui rete comunicativa è però, insieme, lo stringersi del controllo]; ma dall'altro, il manifestarsi di linee di microconflitti, la produzione di insanabili fratture, il minuto erigersi di barriere, e infine la globalizzante logica di frammentazione delle esperienze e delle esistenze, che lei ha descritto nei "nonluoghi"…

Il paradosso oggi è che si parla di globalizzazione, ma i conflitti [micro]locali sono numerosissimi; quasi che avvenissero microracconti nel solco del grande racconto unificante [e molteplici, infatti, sono i tentativi retorici di trattare avvenimenti locali come se appartenessero ad una storia planetaria]. Ma, a questo riguardo, bisognerebbe fare una precisazione. In francese si usa "mondializzazione" invece che "globalizzazione"; io parlerei di "mondializzazione" per definire due aspetti opposti, e anzi in tensione: se da un lato abbiamo una globalizzazione economica e insieme tecnologica [quella che riguarda il mercato e la rete di comunicazione, e corrisponde ad un omogeneizzarsi universale], dall'altro vi è una "coscienza planetaria" che è ecologica e riguarda anche la presa di coscienza di un allargarsi del divario fra ricchi e poveri.
Se vi sono, oggi, dei punti di passaggio nella rete della globalità, è sempre più vero che gli episodi locali sono marcati dall'esclusione; non siamo più in una fase, come quella fra anni '60 e '70, in cui si parlava di "sviluppo" [quasi in una versione "illuminata" della retorica del colonialismo], e ciò dà luogo a tutte le forme d'impegno umanitario, e di carità, che fanno parte di una logica e di un linguaggio di pura assistenza: perché, nella strategia globale, l'idea del futuro di una certa parte dell'umanità è scomparsa. Il problema basilare può essere, allora, quello della costituiva disuguaglianza e "gap" in ciò che da lontano ci appariva dominato da una logica di omogeneizzazione. Sul piano dell'ideologia, l'opposizione fra "locale" e "globale" si è sostituita [traducendosi dunque in un ordine d'idee anzitutto spaziale] alla distinzione, elaborata nel corso del XVIII secolo, fra "particolare" e "universale"; se lì vigeva l'intrinseca convinzione che nel "particolare" c'è sempre una forma di universalità, ora invece 'locale' appare come qualcosa di irrimediabilmente escluso, e insieme, come un'immagine che ha una dominante pittoresca. Globale-locale potrebbe essere, anche, l'ideologia del turismo: chi va a visitare l'elemento "locale" appartiene a un sistema "globale" [senza che il "locale" attinga realmente qualcosa da quella "globalità" che la visita].

Nei riti di elaborazione dell'avvenimento, di cui lei diceva, e innanzitutto nella costruzione delle loro interpretazioni, vi è oggi un personalismo spettacolare da parte di capi di stato che mostrano di non temere più nemmeno il ridicolo…

Potremmo dire che siamo in un mondo di immagini, e che tutto avviene come se noi avessimo bisogno d'immagini forti, "volti", per incarnare posizioni; ma il fatto è che la destra al potere incarna oggi un'ideologia molto forte: la "morte delle ideologie", di cui oggi tanto si parla, riguarda tutt'al più la sinistra - l'ideologia delle destre è talmente forte che non la si vede più: tende a farsi invisibile, a presentarsi come l' unica possibile, a "naturalizzarsi", quasi. Questa ideologia si riassume nel tema della "fine della Storia": nella convinzione che tutto sia presente, evidente, risolto; se tutt'intorno si assiepano gli esclusi, al centro vi è quel che si presenta come un fatto indiscutibile: ossia che la Storia è finita, e che la formula della democrazia rappresentativa nel quadro del mercato liberale e della società di comunicazione, a cui si è giunti, è quella ideale.
Oggi il sistema è sempre più astratto e posto su scala planetaria, e ciò che conta è la dimensione finanziaria delle imprese: i potenti di oggi non sono più coloro che gestiscono le imprese locali, ma quelli che incarnano la riuscita di un sistema globale. È per questo che c'è in questi leader [non diversamente dai vittoriani nello scorso secolo] la coscienza d'impersonare la compiuta riuscita del sistema [e i più "spettacolari" fra essi sono a tutti gli effetti, in quanto uomini d'affari, dei rappresentanti di quel sistema]; di rappresentare dunque, senza mezzi termini, la Storia [anzi, la "Fine della Storia"]: e se non sono sicuri di rappresentare questo trionfo, ciò li rende ancor più arroganti al fine di affermarlo, perché - appunto - il nostro mondo vive sull'immagine.

Lei vede oggi, nel discorso dei movimenti, la possibilità autentica di uscita da questo regime di riti e di finzioni. Quale è allora una narrazione "altra" e possibile?

Ciò che non esiste ancora è uno spazio pubblico portato sulla scala del pianeta: non vi sono, cioè, sufficienti possibilità d'espressione per un'opinione pubblica planetaria; nel senso che, probabilmente, non abbiamo ancora assimilato del tutto questo cambio di rapporto.
I "grandi racconti" che da tempo ormai s'è detto [con Lyotard] sono "finiti", sono quelli capaci di progettare un futuro per l'umanità; è necessario ritrovare questo linguaggio, di fronte a una realtà politico-economica che "propone" [c'impone] qualcosa. Credo che tutti i tentativi, ancora frammentari e dispersi, di presa di parola su scala più ampia, vadano a costruire uno spazio su cui dovrà progressivamente costruirsi questa narrazione "altra" [mentre, appunto, la versione di "grande racconto" immediatamente tradotta in azione, è senza dubbio quella inversa, quella cioè comunicata dal dominio]. L'importanza del discorso "anti-mondializzazione" è appunto di tendere a un pieno, di creare dei luoghi "reali", in cui una parola "altra" possa prender forma.
Credo che ci sia una possibilità di farlo, perché l'ideologia della globalizzazione non ha nemmeno un discorso. Quando si dice che la storia è finita, l'ideologia tace, non ha più nulla da dire. Ciò che si sente è la voce degli altri. E resta tutto un discorso da costruire, a partire, appunto, da quelle voci.

Intervista raccolta da Tommaso Ottonieri
su Carta, n.45, 28/11/2002.

- Scrivici per ogni curiosità e richiesta su Tommaso Ottonieri -