recensione di Aldo Busi Manifesto 18.11.02 - “Che cosa hai fatto?” - Raul Montanari
Il fascista sul tetto che scotta
Il prototipo del fascista rampante e autodistruttivo, che cerca il "bel
suicidio" sulla strada del prossenitismo mercenario. Metafora dell'Italietta
berlusconide, è l'eroe di "Che cosa hai fatto", il romanzo di Raul
Montanari.
In una Milano definitivamente sotto presidio militare e poliziesco, metafora
di un'Italia tanto televisivamente quanto capillarmente posseduta da un innominato
e vago ma corposissimo e non più solo tentacolare Presidente, ambienta Raul
Montanari il romanzo più riuscito della sua carriera altalenante fra l'ambizione
dello scrittore gratuito e la resa all'autore di, si fa per dire, cassetta.
Con Che cosa hai fatto (Baldini e Castoldi), egli scrive un'opera linguisticamente
acuta e spessa, di indubbia sedimentazione bel lievitata e risolta, sebbene
ancora a doppia lama interpretativa, nel senso che si resta incerti se collocarla
nella Letteratura o, seppur assolutamente inedita in Italia per novità e peso
di scrittura, nei prodotti di genere cartolibrario (nella fattispecie, fra un
poliziesco d'alta scuola americana, senza però alcuna ombra di navigliese,
e un pulp particolarmente elegiaco, bucolico e repubblichino a un tempo,
ecc.). Se Che cosa hai fatto è foriero di opere a venire scritte e inscritte
fuori di dubbio nell'estetica del linguaggio narrativo tanto meglio (dalla prossima
si capirà meglio anche questa), altrimenti è e resterà un romanzo interessante
e originale per parecchio tempo; anche per le ragioni più sbagliate, cioè non
messe in conto, forse, dall'autore medesimo.
Il testo infatti è un campione unico nel mettere in scena il prototipo emozionale,
sessuomane e in proporzione macabro, del fascista arrivato, feticista
oltre ogni immaginabile traguardo, ovviamente inconsapevole di esserlo, partito
chissà come e chissà da dove, dalle Acli o dalle Br o da Cl e comunque dal Corrierino
dei Piccoli, e arrivato come tutti fascista in tutti i sensi.
E i sensi in gioco qui, per l'appunto, sono tanto ottusi nel sentire quanto
caparbi nel dar a vedere un'ipersensibilità direi da onorevole leguleio da maggioranza
sempre, nobilitatosi e da uno spleen - ovvero appropriata interiorità
da parlamentare - di dovuta maniera (D'Annunzio, Liala e Evola assunti per playstation)
e dal superbo apparato di rappresentazione in cui, non avendo niente da fare
per giustificare un ruolo e una pensione d'oro, si cerimonia la cerimonia, e
in culo a ogni idea che non sia di viscerale, egotistico tornaconto anticostituzionale,
sì, ma quanto sublime e sublimante.
L'io narrante le proprie gesta di apparente autodistruzione è personificazione
aggiornatissima, anzi, divinante icona del tipico nichilista flippato pregno
di autostima e danè e, in percentuale, del relativo disprezzo per il mondo,
così cattivo, e per la vita, e la sua voce è una variante di quella, propagandistica,
tanto cara al Ventennio, e oltre, che si vantava di andare "a cercar la
bella morte" - talvolta, purtroppo, senza mantenere la parola.
Arrivato in tutto, come dicevo, e nel suo contrario, eccolo, il fascista
ultima versione, non più verticistica ma strisciante, eccolo pervenire secondo
destino allo zenit del suo essere macho confesso e infantile, incapace di qualsiasi
autocritica e quindi altamente sentimentalistico, cioè melodrammatico e ridicolo
malgré lui, eccolo là, in cima all'evento degli eventi, irrinunciabile
clou di ogni estasi vespasiana, pronto a immaginare la conclusione della mirabolante
sua parabola: organizzare la propria morte. Detto fatto. Noleggia una fuoriserie-carro-celeste,
mette in quinta e via per la divinizzazione ultima della virile psiche in orbace
e stivali e frustino e del suo percorso di sottostante cazzo esistenziale che
si voglia esemplare e fulgido, e stupido fino all'ultimo, e se è il penultimo
tanto meglio.
L'anonimo e tenebroso e palestrato eroe, orbato di moglie e figlia perite in
un incidente (le mie condoglianze a lui ma i miei vivissimi complimenti a entrambe,
che così si sono risparmiate un simile marito e padre), prossimo ai quarant'anni,
si licenzia da un imprecisato lavoro superpagato, intasca una consistente liquidazione
e, grazie a una troia di regime vecchia amica di università che di professione
fa la procacciatrice di carne umana da sesso per politici e sportivi e industriali
di grido, si affida dunque a un piano di suicidio. La pia intenzione si svelerà
presto, almeno secondo me, non so per Montanari, per quel che è: un alibi, decadente
e fasullo a puntino, per concedersi ogni scapricciamento di appendice e di orifizio
grazie a comprimarie e comprimari prezzolati.
La sessualità da oratorio, letteralmente, che qui va in scena di marchetta in
marchetta è costituita da tableaux vivants di memoria sadiana abbastanza
scontata, non fosse che Montanari, consapevole della stucchevolezza incombente
in ogni reiterazione a soggetto erotico, sa riscattarsi con un effetto di scrittura
mai banale: si finisce, per nostra e sua fortuna, per dimenticarsi di questi
funebri attori da casino metropolitano un tanto a botta, e della loro parte
di funerale a memoria, e ci si concentra sul riverbero intellettuale, davvero
notevole, di parole così fisiche e precise per situazioni tanto astratte da
rischiare l'inverosimiglianza, peggio, la verosimiglianza (la sessualità fascista
è sempre astratta perché è progettualmente allontanata da sé: il fascista non
si avvicina mai a nessuno, quindi sta lontano soprattutto da sé tanto si panica
nell'orrore che, giustamente, si fa, e pretende però che sia sempre l'altro
ad avvicinarsi a lui, ai suoi desiderata psicotici, ai suoi fantasmi teatrati
nella sua culturetta della morte e quindi della negazione di un sesso davvero
a due, e di cui almeno uno, almeno lui, vivo).
Così, procedendo nella lettura senza intoppi e con qualche non rara ammirazione,
si vuole vedere come procede la sfida scritturale, non come vanno a finire le
scopate a raffica, partecipi o mimate che siano; a uno scenario urbano preda
a un'atmosfera di tipo sudamericano, e quindi a una irreversibile immobilità
politica del popolo svagato in scaramucce di piazza, corrisponde una dittatura
sessuale, imposta quanto subita, del protagonista, le cui licitate fantasie
erotiche o trasgressioni del menga, ovvero prestazioni concordate a tavolino,
vanno a sancire la perdita di ogni libertà sentimentale e civile (civile e quindi
sentimentale), di ogni slancio affettivo non serializzato e fissato in un cartellino
del prezzo, di ogni follia del cuore non codificata nel libero mercato
delle emozioni fra negozianti negoziati. Le alcove da dietro le quinte raffigurano
in verità la politica di proscenio, il materasso prefigura il Balcone da Piazza,
la penetrazione avviene per plagio pregresso e diffusivo, premeditato come il
più silente, e catodico, sterminio di massa, l'orgasmo coincide con lo spasimo
dell'anima civile che si arrende al Presidente e stramazza nel Suo plauso e
abbraccio preregistrati; il fascismo allestito nel romanzo, come il sesso che
vi scola, è post-moderno anch'esso, mellifluo, fumettistico e modaiolo e perfino
scanzonato, ma non per questo meno efferato e vampiresco, proprio come quello
in cui è caduta l'Italia, ormai periferia tutta dell'impero di Arcore, in questo
brevissimo lasso di tempo postelettorale.
Che cosa hai fatto - che, se fosse stato pubblicato solo otto mesi fa,
sarebbe parso profetico più di qualsiasi catastrofismo alla Nostradamus - è
un intelligentissimo e pignolo stupidario sui luoghi comuni, ovvero delle attitudini
da manuale, fra servi e padroni, fra ubbidienti e ubbiditi che si scambiano
casacca un istante (da timer) certi così o di vendicarsi dell'altro o di mondarsi
da sé l'anima dell'infame impunito; gira a meraviglia la masturbatoria giostrina
a manovella fra indemoniati controvoglia e demoni per statuto, personaggi trasversali
e rotti a ogni possibile compromesso e corruzione da tran tran. Tutti tanto
privi di scrupolo e spietati nello spararti in bocca quanto sentimentaloni nel
calarsi le mutande quale coronamento di ogni terreno ideale, nessuno qui ha
più divise intellettuali e morali riconoscibili per appartenenza ideologica
o partitica o istituzionale o professionale certa o asserita (non ci si stupirebbe
se il nostro nerissimo eroe letterario, o uno speculare in carne e ossa, si
dichiarasse tutt'oggi di Sinistra e lavorasse per gli Aiuti Umanitari, scrivesse
en passant per Repubblica e addirittura esibisse il manifesto
sottobraccio perché convinto che è il suo pane quotidiano), ognuno clone di
ogni altro nella repentina capacità di far compravendita di ogni desiderio proprio
o altrui, fosse pure programmaticamente l'ultimo, ognuno rassegnato a comprare
e a vendere gestualità umana atta a soddisfare, a parole, uno scheletro di desiderio,
uno spettro!
Non potrebbe essere più vasto, composito e tuttavia codificato e riassuntivo
il campionario degli stereotipi sessuali ovvero dei tic dell'italiano medio
occidentale e delle sue donne, un'unica creatura a più teste di cui nessuna
pensante, un'idra depressa e sconsolata e mostruosa in balia della pornografia
consumistica più esaltata e deprimente. L'impresa di Montanari sta nell'essere
riuscito a scrivere di sesso, cioè di mummie museali che timbrano il visitatore
con calchi di culi e tette e cazzi e culi atti a dargli il tocco finale dell'onanista
ultraperfetto, dribblando la pressoché inevitabile noia che ti prende a doverne
leggere ben sapendo che si tratta dell'ennesima scopata, pardon, scoperta d'Egitto.
Per intenderci, Montanari non è la risposta meneghina a Houllebecq; il lombardo
ha lavorato a questo testo con più olio di gomito, e più in punta di mouse,
di quanto non comporti per il francese sfornare un tedioso, eppure ennesimo,
best-seller.
La mia domanda a Montanari però rimane (è la stessa che posi ad Alessandro Barbero
allorché gli feci pubblicare Bella vita e guerra altrui di Mr Pyle gent.):
Montanari questo bel libro su un brutto cretino l'ha scritto perché sapeva quel
che faceva o perché, sfuggendosi in quanto scrittore, gli è sfuggito il personaggio
a tal punto da riuscire a dare forma a un'opera finalmente intera e intesa?
E se arrivate a poche pagine dalla fine e temete che il protagonista cambi idea
e non si suicidi più, fate come me: piantate lì e tenetevi l'illusione che la
promessa non sarà infranta. Ci sono finali di libri simili a inizi di legislature:
se il cero non è sicuro, non valgono la candela.
Di certo, non gliela terrò accesa io una sola riga di più.