Cos'è questo fracasso? Tiziano Scarpa


Recensione di Carla Benedetti, in "The New York Review of Books-La Rivista dei Libri", 10, ottobre 2000

La critica come collaudo

Da Cos’è questo fracasso? di Tiziano Scarpa provo a estrarre cinque idee esplosive. L’operazione non richiede un grande lavoro di scavo, perché qui tutto è in superficie, enunciato con rapidità e con franchezza. Questo libro (che raccoglie articoli e brevi saggi composti tra il ‘91 e il ‘99, quasi tutti già pubblicati in giornali, riviste o volumi) non nasconde implicazioni sotterranee, allusioni abissali, e quasi non conosce ironia. Richiede una lettura letterale (di quel tipo che Scarpa stesso auspica: "Sogno l’avvento della Lettura Letterale, che destituisca qualsiasi privilegio di senso, qualsiasi valore aggiunto semantico… alla letteratura contemporanea"). Chiede non un esegesi ma risposte, enunciate, se possibile, con altrettanta franchezza e libertà di pensiero. Chi scrive dimostra di essere libero sia da lacci ideologici che di galateo. Chi risponde non può non rischiare anche lui di spaccarsi la testa su quei cinque fronti.
Dunque, prima idea: la critica è un collaudo. I libri si mettono alla prova; le idee si collaudano nel proprio corpo, nella propria esperienza. "Collaudi" era il titolo di una rubrica di recensioni che Scarpa ha tenuto sulla "talpalibri" del "manifesto" dal ’98 al ’99 (qui ne sono stati raccolti diciassette, più uno apparso sull’"Unità"). A prima vista può sembrare solo una bella formula giornalistica per parlare di libri. In realtà il collaudo, come qui praticato (in tutto il libro, non solo in quei diciotto pezzi), implica un approccio ai fatti della cultura che sta agli antipodi della cosiddetta "critica militante", così come viene per lo più concepita oggi in Italia. Per collaudare un libro, un’idea, una scrittura, un’opera d’arte, il primo gesto da fare è infatti è quello di rompere il cellophan, estrarne l’oggetto e farlo entrare nel mondo.
Ma è proprio questo contatto con il mondo che l’idea dominante di letteratura, alimentata dai critici e dai poteri mediatico-industriali, oggi scoraggia e inibisce. La letteratura di cui si parla e si discute vive idealmente dentro a una cornice, separata dal mondo in cui agiamo, soffriamo, ci appassioniamo, ci indigniamo. E come una macchina pensata per fare bene certe cose e solo quelle: produrre esperienze estetiche, scatenare interpretazioni, giudizi di valore, dispute del gusto, riempire storie letterarie, inventari di fine secolo, mappe, canoni. Il che la rende la cosa più specializzata e più morta che ci sia.
In "La letteratura sotto l’impero del mercato" (articolo pubblicato in tre puntate sul "manifesto" del 19 e 25 aprile, e 3 maggio scorsi), Remo Ceserani si interrogava sulle possibilità di "resistenza" che può avere la letteratura tra le maglie di un’editoria sempre più dominata dalla logica del profitto a medio termine, e in cui gli scrittori stessi "si adattano al mercato, confezionano prodotti che rispondono alle richieste dei consumatori". Ma è davvero il mercato, o l’economia, il cuore del problema? Io credo che sia piuttosto quel processo di specializzazione a cui viene sottoposta la letteratura (e la sua fruizione) nell’odierna società estetizzata. Quello che maggiormente ripugna di questa Letteratura Istituita non è tanto il suo essere prodotta per un mercato, ma il suo venire a coincidere con una sfera funzionale della società differenziata. La chiesa per pregare, il tribunale per far valere i propri diritti, le urne per esprimere il voto democratico, i villaggi turistici per rilassarsi. Così la letteratura o l’arte. Per qualsiasi cosa le si pensi istituite, per il mercato oppure per compiti più nobili quali la formazione delle coscienze o la rappresentazione critica del mondo contemporaneo, la loro specialità sarebbe quella di produrre valore estetico. Ceserani concludeva dicendo che occorre "affrontare di petto una discussione sulla funzione, il significato, la delimitazione della letteratura (o dell’immaginario) nella società di oggi, sul posto che essa dovrebbe avere in un programma formativo di base e avanzato". Ma non è proprio questo assegnarle una funzione, una delimitazione e un posto riservato a rendere la letteratura un circuito chiuso, protetto, e come tale colonizzabile dal mercato? Kant assegnava funzioni diverse alle facoltà dell’uomo e alle sue diverse sfere di attività. Tutto doveva essere ben separato e delimitato: la sfera del bello da quella del giusto e del vero; la sfera estetica da quella pratica e della conoscenza. Un fatto su cui meriterebbe riflettere è allora l’alto tasso di kantismo, di ripresa dell’impianto dell’estetica settecentesca, che si riscontra in molta teoria letteraria odierna impegnata a ridefinire la funzione estetica [1]. La sfera differenziata dell’estetica quanto di più funzionale possa esserci all’odierna società di mercato e all’estetizzazione diffusa che la contraddistingue. In questa sfera tutto si rende leggibile attraverso il codice del "piace/non mi piace", anche le merci, le auto e le caffettiere; tutto è giudizio di gusto (che non arriva nemmeno a generalizzarsi come accadeva con il bello kantiano); ogni consumo è fruizione estetica. Ed è anche per questo che al critico letterario oggi si richiede sempre più di specializzarsi in un’unica prestazione: emettere giudizi di valore, impegnarsi in discussioni sul valore estetico di questa o quell’opera, compilare pagelle, enfatizzando quell’unico codice che sta divorando ogni altra esperienza possibile. Perciò non si può non concordare con quanto scrive Scarpa: "Collaudare i libri significa incoraggiare un uso improprio della letteratura: narrativa, saggistica e poesia mettono alla prova il mondo e il mondo a sua le verifica o le falsifica. Si tratta, in piccolo, di una critica della critica letteraria: siamo sicuri che si debba rimanere chiusi dentro l’utopia carceraria delle nostre biblioteche mentali, mobilitando soltanto categorie estetiche? L’unica cosa da fare, alla fine di ogni lettura, è dire: "brutto" o "bello"?". Il collaudo, nel suo "piccolo" è un’azione eversiva di de-differenziazione, una sorta di critica performativa che trapassa le sfere.
Seconda idea: non solo i libri sono dei fatti nel mondo ma anche parlare di libri è un fatto nel mondo. La critica letteraria ha una responsabilità enorme nei processi di trasformazione che di solito essa imputa al mercato o all’industria editoriale. Molte cose si giocano proprio al livello delle domande che si fanno alla letteratura. La critica sempre più ci educa a porre ai libri domande "specializzate". Domandate alla letteratura solo ciò che è della letteratura! Nient’altro. Scarpa dedica non pochi collaudi alla critica letteraria. Uno di questi, intitolato "Fantacritica (nel senso dell’aranciata)", raccoglie recensioni fittizie firmate da recensori reali. Andrea Cortellessa (sull’"Indice" di giugno) le ha considerate un esempio della passione di Scarpa per il pastiche e per l’apocrifo. Ma qui l’apocrifo non è di casa, e neanche il pastiche. Questi pezzi sono vera e propria satira con bersaglio, genere oggi non molto praticato in ambito letterario colto, e poco compatibile con la disposizione post-moderna (più incline all’ironia o all’effetto di apocrifoo, che non a prendere posizione sulla pagina). Due esempi: «"Mo’ lo stronch’io, ‘stu cciovan scrittorin gnoranto, che siccomo che nun ho cumbinato ‘na mazza como studioso ma scrivo li articolettin sul ciornal che fa ottocientomila copie io so’ importanto..." STEFANO GIOVANARDI, "la Repubblica"». «"Il libro più bello di quest’estate è il romanzo pubblicato dal mio caporedattore cinque anni fa...". GIOVANNI PACCHIANO, "Corriere della Sera"».
Terza idea: alzare vertiginosamente le attese nei confronti della letteratura. "Uso improprio della letteratura" non significa fare dei libri quello che si vuole, interpretarli liberamente, senza preoccuparsi di ciò che essi dicono. Anche la libertà d’interpretazione viene pur sempre messa in moto da quell’uso depotenziante che la società estetizzata destina alla letteratura. Uso improprio vuol dire trapassare quella barriera invisibile che separa la letteratura dal mondo, destinandola a macchina specializzata per suscitare interpretazioni. Vuol dire essere degli "incontentabili che ai romanzi continuano a fare domande radicali", in un’epoca in cui invece nessuno si aspetta più niente dalla letteratura, tanto meno i critici che la trattano "come un vecchio catorcio che non ha nessuna possibilità di dire la sua a fianco dei saperi contemporanei".
Quell’idea meramente funzionale della letteratura è uno dei tanti sintomi della stanchezza della modernità e della sua malinconica e paralizzante auto-descrizione epocale: la stessa che ha dato per già avvenuta la morte dell’arte, l’esaurimento del nuovo, l’impaludarsi della storia, il suo implodere in un’infinita enciclopedia, in una guazza intertestuale labirintica che non ammette creazione. Non c’è molta differenza tra il concepire la letteratura come sfera specializzata in esperienza estetica e il considerarla un patrimonio tutto passato, da gestire come un morto possesso. Entrambe la separano dal mondo, negano che la letteratura sia qualcosa che può agire nel mondo. E solo in un’epoca paralizzata dall’idea di non poter più creare niente poteva farsi strada una simile concezione cimiteriale della letteratura. "Da giovane ho conosciuto un sacerdote che diceva: "Ma perché perdi tempo a scrivere? Non fare il superbo! La verità è già tutta nella Bibbia!"". Anni dopo Scarpa nota come questa visione coincida con la "deprimente idea novecentesca secondo la quale noi oggi viviamo un tempo esausto, addirittura postumo, dove tutte le cose belle e importanti sono già state dette dalle generazioni che ci hanno preceduti".
Incamminatosi su questa via, il collaudatore non poteva non incontrare Antonio Moresco, autore degli Esordi e del Vulcano [2]. Un capitoletto del libro di Scarpa è occupato da un colloquio con lo scrittore, qui definito "il signore che apre". A Moresco è stata spesso rimproverata dai critici un’eccessiva ambizione, una concezione gonfiata del ruolo dell'arte e dell'artista, persino la pretesa di "creare un'opera che non abbia l’eguale" (come ebbe a rimproverargli Vittorio Coletti recensore degli Esordi). L’addebito non è dei più comuni. Le critiche che di solito vengono mosse agli scrittori, ai "cannibali" a esempio (oggi molto presi di mira, e anche Scarpa lo è stato, soprattutto quando ha pubblicato la raccolta di racconti Amore® [3]) vertono più che altro su questioni intra-estetiche: eccesso di mimesi, non sufficiente distanziamento stilistico dal degrado rappresentato, ecc. Sul conto di Moresco invece pesa questa supposta sopravvalutazione del ruolo dello scrittore e della letteratura. In ogni sua parola risuona una nota che a molti è apparsa stonata, dissonante, addirittura arcaica. È la nota di chi pretende di scrivere "per necessità", spinto da motivazioni non più ammesse, ma che, ci si immagina, dovevano pur essere le stesse che spingevano un Dante, un Leopardi, un Dostoevskij, un Kafka… Ma oggi non sarebbe più quel tempo. Sono sfilate tante bare, in un funerale senza fine: la morte dell'arte, la fine del mandato, la morte dell'autore, il postmoderno, la fine del nuovo! Come è possibile oggi pensare di potersi ancora misurare in quel gioco tra colossi, creatori di forme, invece che in quello minore, ironico, e più consono ai tempi, del "bricolage postumo" [4], degli stili d'accatto, dei generi recuperati, della parola mai più originale!
Eppure, se ci si riflette - e Moresco e Scarpa, in due modi diversi, ci obbligano a riflettere proprio su questo - non si capisce per quale ragione quel tipo di rapporto con la scrittura non dovrebbe più esserci concesso.
Per quale destino epocale, o per quale sortilegio oggi non sarebbe possibile aggiungere più niente a quel grande museo immaginario, di venti e più secoli, di cui è fatta per noi tardomoderni la letteratura? Chi ha decretato non tanto la fine dell’arte ma il suo irreversibile de-potenziamento? Questa idea di una minore destinazione è la premessa che agisce in maniera irriflessa in quasi tutti i discorsi che si fanno attorno alla letteratura, e che ha funzionato per molto tempo come una camicia di forza per gli scrittori. Lo testimonia Moresco con quel suo essere rimasto per anni sepolto vivo nel cimitero post-moderno. Lo testimonia Scarpa con il suo aver cercato aperture altrove, per esempio nei territori della cultura pop.
""Ma come", ci dicevamo, "perché mortificarci con questo senso della fine quando un certo cinema, una certa musica, una certa letteratura senza troppe pretese, la fantascienza, il giallo, sfornano cose che forse non saranno dei capolavori, ma di sicuro gioiscono, si godono le proprie facoltà espressive!"".
Dunque, quarta idea, per riuscire a fare ("Due o tre cose che voglio riuscire a fare con i libri che scriverò" è il titolo di un altro breve saggio contenuto nel libro di Scarpa), occorrerà disfarsi di questo senso della fine, di questa paralizzante autodescrizione epocale prodotta da una cultura che si percepisce al termine. Mostrare che è solo un'illusione culturale - un'illusione che però ci annienta congelandoci in un limbo di "non nati", nella condizione cioè - per usare l'immagine di Moresco - di chi non potrà mai più esordire. Questa è la posta in gioco nell'ultimo capitolo del Vulcano, intitolato "Il manierista del nulla". Si tratta di un corpo a corpo con la Trilogia di Beckett, cioè, potremmo dire, di un altro collaudo. Scarpa lo definisce "una colluttazione ermeneutica ospedaliera", essendo qui la lettura alternata con le vicende della malattia di chi legge. Come tutti i collaudi, anche questo muove da una domanda radicale, da porre in questo caso proprio a Beckett, cioè a colui che meglio di ogni altro incarna lo scrittore epocale, per la maniera in cui è stato letto e consacrato dalla tarda modernità - l'"esausto" che ha esaurito tutti i possibili, lo scrittore che chiude, non solo un'epoca, ma il nostro destino. "La tua opera è stata usata come viatico per giustificare i tempi che stiamo vivendo" [5]. Beckett è colui che ha smantellato le illusioni della modernità. Ma nello stesso tempo, con la sua soluzione "terminale" egli ha anche aperto, a noi che veniamo dopo, una strada senza uscita. Poiché il suo gioco a chiudere può essere proseguito all'infinito senza che niente venga mai davvero a termine. Beckett, pur nella sua indiscutibile grandezza (qui in gioco non è un giudizio di valore come in molti stanchi esercizi della critica letteraria contemporanea), viene affrontato da Moresco come il creatore e il divulgatore di una delle più resistenti immagini-trappola della tarda modernità: appunto la fine che non ha fine. Questo collaudo-colluttazione ce ne mostra il volto paralizzante: ci mostra come essa abbia potuto funzionare da trappola castrante e repressiva, che impedisce la nascita. Il nostro destino, dopo Beckett, sarebbe dunque quello di essere condannanti, in eterno, a un "surplace col silenzio e con il nulla", a questa corsa terminale che non ha termine? Quel corpo a corpo con la Trilogia muove appunto da qui: dall'urgenza di riaprire il gioco, denunciando il sortilegio che ci tiene prigionieri di una patologia epocale, dal bisogno di cercare una via d'uscita. "Noi non vogliamo costruire, vogliamo esordire!" [6]. Sarà forse per questo uso improprio di Beckett, che il libro di Moresco non è stato recensito sui quotidiani nazionali, ma, in compenso, è stato stroncato sull’"Indice"?
Quinta idea: collaudare i libri vuol dire far entrare nel mondo anche se stessi, mettersi alla prova, o per meglio dire a rischio. La critica come discorso specializzato evita di collocarsi nel mondo. I critici di solito, anche quando mettono in gioco i propri gusti personali, anche quando scrivono la propria autobiografia attraverso gli autori che prediligono, parlano senza rischiare niente. La specializzazione li pone comunque in una zona franca, riservata, che sia quella del circolo ermeneutico o dell'infinita disputa del gusto. Per quanto personale possa essere, il loro discorso non infrange alcuna regola del gioco: è al riparo dai rischi che si corrono nel mondo, dove si è costretti a usare anche altri codici, non solo quell’unico messo in circolo dalle agenzie dell’estetizzazione diffusa. Non solo il mi piace/non mi piace (o il bello/burro), ma anche il vero/falso, o il giusto/ingiusto. Per esempio: era giusto dare il premio Strega a Siciliano? Ecco quel che rispose Scarpa all’epoca: "Perché tanto scandalo di fronte alla vittoria annunciata di Siciliano? Enzo ha già vinto. È riuscito a fare carriera con i libri, è diventato presidente di un’azienda che maneggia migliaia di miliardi… perché non nominarlo anche presidente della letteratura?". Forse questo lo hanno pensato in molti. Ma quanti lo hanno scritto? Un’altra domanda. Il premio Strega a Siciliano (o qualsiasi altro premio letterario che venga conferito a direttori di case editrici, di giornali ecc.) quali effetti può avere nel mondo? Come influisce sul nostro modo di atteggiarci verso la letteratura, sulle nostre attese di lettori, o sulla nostra attività di scrittori? Scarpa risponde così: "La letteratura? Non scherziamo, per favore! La letteratura è un mezzo per fare carriera, ricevere onori, appuntarsi coccarde, collezionare medagliette e coppe, fare bella figura in società… Tutti i giornalisti di successo hanno pubblicato romanzi, aumentando il loro successo. Tutti i cantanti e cantautori hanno pubblicato il loro romanzo aumentando il loro successo. Tutti i comici, presentatori e politici hanno pubblicato romanzi, versi, pamphlet, raccolte di aforismi, trattati, aumentando il loro successo. Certo per non danneggiare la carriera hanno dovuto pubblicare romanzi un pochino troppo rispettabili, versi un pochino troppo sommessi, fantasie un pochino troppo morigerate, ma che c’entra! Nulla di quello che hanno scritto potrà mai essere usato contro di loro!" Dunque, qual è la conclusione? "Era increscioso premiare Siciliano venti, trent’anni fa, quando faceva lo scrittore. È sacrosanto premiarlo adesso, per far capire una volta per tutte che la letteratura è un’alta uniforme: hanno diritto di indossarla solo gli uomini di potere, le star dei media, i padroni del circo e le loro bestie ammaestrate".
Scarpa ripete questo genere di operazioni su molti altri oggetti: dal mito di Attis alle narrazioni giornalistiche degli incidenti stradali, dal corpo fatto di parole di Burroughs a uno scritto postumo di Manganelli, dai Chapman Brothers alle vite dei santi, da Carducci ai ritornelli dell’identità nazionale, da una lettera di Giovanni Paolo II alla fantascienza cyberpunk, da un romanzo di Daniele Del Giudice ai libri di Mario Perniola. La ripete ogni volta "in piccolo", localmente, senza pretese di generalità surrettizia, ma mettendo ogni volta in gioco la propria esperienza diretta, senza paura di apparire disarmato, ingenuo o controcorrente. Se la cultura letteraria odierna ci ha abituati a voci che deviano da sé ogni responsabilità di ciò che dicono attraverso un ironico "non sono io che parlo", qui troviamo invece una voce che, al contrario, non si dimentica mai di dire:"Sono io che penso questo e quello". Sono io, cioè: tutto quello che dico potrà essere usato contro di me.


Alfabeto e intemperanze, da Alice.it

"Ciò che chiamiamo scrittore è questa strana figura sociale, né espertogente, a cui si dà ascolto senza avergli posto alcuna domanda."


Agli scrittori oggi viene richiesta la partecipazione a ogni evento, la condivisione di ogni turbolenza intellettuale e la conoscenza, nonché la soluzione, di tutti gli sconvolgimenti socio-psicologici dell'umanità. Spesso lo scrittore, interpellato da riviste, quotidiani radio e televisioni, azzarda conclusioni, si barcamena tra varie ipotesi e affermazioni: insomma svolge il ruolo di "tuttologo" (come si usa dire, con un termine per la verità poco felice). Sono il più delle volte grandi scrittori ma non intellettuali, autori ma non sociologi, politologi o economisti. Altri, invece, ed è il caso di Scarpa, sono stati critici letterari e culturali prima di essere a loro volta autori. Hanno sperimentato l'analisi direttamente e sanno limitare l'ambito di intervento agli argomenti di reale competenza. Cos'è questo fracasso? (la frase è carpita a Goldoni), è un libro che raccoglie molti saggi dello scrittore veneziano editi o inediti che ripercorrono proprio la sua strada di critico. Un critico particolare, che anche in questa funzione non disdegna la ricerca linguistica, che sa e vuole utilizzare i termini in modo dirompente. Il volume è diviso in due parti. Nella prima, una sorta di dizionario-glossario intitolato Alfabeto, sono elencate alcune voci (43, per l'esattezza): si va dalle Bugie ("la bugia presuppone un paesaggio e una situazione, tratteggia una piega della psiche e uno scopo"), alla divertente, sagace Fantacritica (nel senso dell'aranciata), dove si diverte a scrivere piccoli brani critici (su un libro di... Garbo!), "alla maniera di" (e si va da Mirella Appiotti a Niccolò Ammaniti, passando per Beniamino Placido, Roberto Cotroneo, Lorenzo Mondo...); si prosegue con Italiani ("di che cosa è fatto un italiano?") e si arriva a Nero (italiano), Personaggi, Premio (Strega), Trash, fino a Zero. La seconda parte del volume (intitolata Intemperanze), invece, contiene saggi di più ampio respiro, in cui lo stesso Scarpa si espone parlando molte volte di sé e del proprio lavoro. Ritorniamo così al discorso iniziale: cosa significa essere scrittore e perché il fatto stesso di esserlo deve portare all'onniscienza. Ma davvero gli è accaduto di sentirsi chiedere: "Tu che sei uno scrittore che si chiama Scarpa, cosa ne pensi del tuo rapporto con le scarpe?" oppure "Tu che sei uno scrittore, cosa ne pensi del film Il ciclone di Leonardo Pieraccioni?"; di domande come queste Scarpa ne elenca alcune decine: uno spasso. Per questo, forse, "dosa" sapientemente i suoi interventi e appare poco in video.



Recensione di Andrea Cortellessa, su L'Indice dei Libri del Mese, n.06 2000.

Quello di Tiziano Scarpa, il più brillante fra i narratori all'esordio negli anni novanta, è all'origine un formidabile talento mimetico. Il suo nuovo libro, caratterizzato da uno scoppiettio continuo di trovate, dissimula pure segmenti assai seri, che permettono di individuare quasi una poetica. Parlando dei monologhi di Thomas Bernhard, Scarpa sottolinea come essi non siano davvero in prima persona, bensì passino per la trascrizione di un narratore-portavoce, il quale non fa altro che "aprire le virgolette per far risuonare la voce dell'altro". Il talento dell'istrione (un libro di Bernhard si intitola L'imitatore di voci) si rivela così essere, anzichè narcisistica egolatria, massima apertura a quella altrove definita la "parola radicalmente altrui della letteratura" - abdicazione di sè nei confronti dell'onda sonora e corporale dei rumori o voci altrui. Perchè noi "siamo tessuti, impastati, fatti (drogati) di altri".
Nel saggetto sul Campiello goldoniano che intitola il libro (raccolta di scritti critici dal 1991 al 1999), lo scrittore si fa registratore umano del "verbodromo", "sociodromo", "somatodromo", insomma dell'arena popolare, ring tonante di strepiti e sussurri. Qui per Scarpa si inaugura "un rapporto fra artista e classi popolari" proseguito, nel Novecento italiano, dal solo Palazzeschi del Doge (un romanzo non a caso veneziano). Avrebbe potuto aggiungere il Gadda di Adalgisa e Pasticciaccio (quello che parla dell'"insinuazione del dialetto" come "forma di avvicinamento al pòppolo", alla sua "icastica di alto valore"); ma il punto non è certo nella precaria caratterizzazione sociale di questa istanza etno-linguistica (la quale infatti gli fa azzardare un termine screditato come "populismo"). A contare è invece la radicale dialogicità di questa poetica dell'incontro ("la letteratura è la scienza degli incontri"): l'Alatiel di Boccaccio o persino la Beatrice del sonetto Tanto gentile come figure di "incontro perfetto, conchiuso in se stesso, esaurito in una comparsata: ciao". È chiaro come la diversificata ebbrezza del numero degli "incontri" sia inversamente proporzionale alla loro profondità. Molteplicità, superficie: il pensiero non può che correre a Italo Calvino (sigla infatti la letteratura dell'incontro una specie di ricetta per Se una notte d'inverno un viaggiatore: "primi versi senza poema, incipit di romanzo incompiuto"). E infatti il primo, scoppiettante Scarpa - quello che nel 1996 trionfa nel romanzo-saggio Occhi sulla graticola (Einaudi, 1996) ma anche quello, di due anni successivo, del bistrattato package di narrazioni brevi Amore(r) (Einaudi, 1998) - è un prensile imitatore di voci, un acrobatico pasticheur in grado di fare con le parole (le "frasi-giocattolo", le chiama: alludendo agli speech acts di Austin, ai giochi linguistici di Wittgenstein e magari anche ai metafisici balocchi dell'amato Savinio) tutto ciò che vuole. La poetica dell'"apocrifo" fa anche qui le sue prove (per esempio nell'esilarante - e minacciosa - Fantacritica, che fa il verso a diciotto noti critici letterari, o nel - perfetto - tombeau per Giorgio Manganelli). Eppure qualcosa è cambiato in Scarpa: e infatti Cos'è questo fracasso non è una raccolta calviniana, una specie di nuova Collezione di sabbia.
Il suo baricentro è invece costituito dai pezzi facili usciti su "Alias", il supplemento del "manifesto", qui raccolti con il titolo 17 collaudi ( +1). Se il titolo rinvia alle prefazioni di Marinetti ai libri delle ultime leve futuriste, l'intento è quello di fuoriuscire fisicamente dallo studiolo del manierista, dalla Wunderkammer del collezionista malinconico ("l'utopia carceraria delle nostre biblioteche mentali"), per mettere in scena "un'esperienza suggerita da quelle pagine". Ed è significativo che tale anelito all'apertura coincida con l'incontro sulla via di Damasco con Il signore che apre: cioè con l'Antonio Moresco qui intervistato ("Anch'io, se avessi potuto leggere le tue cose quindici anni fa, non avrei perso tempo con questa ideologia terminale", così recita Scarpa il suo atto di contrizione). Il libro termina, conseguentemente, con l'abbandono del Novecento morente insieme alla nonna morta: "Di tutti e due - che pure ho amato tanto e che mi sono stati carissimi - delle loro tremende, tragiche carabattole, io non ne voglio più sapere".
Siamo insomma in piena transizione: tra il Signor Scarpa Uno, che conosciamo e amiamo, e un Signor Scarpa Due i cui lineamenti non riusciamo ancora a decifrare. Dovessi aggrapparmi a una sola delle travicelle qui galleggianti, nel "brusio mitologico" e nel "bagno d'immagini" che allaga questa fine di secolo, starei col brano più antico, l'inedita Teoria delle aureole, che illustra lo stilema col quale i fumetti rappresentano un oggetto scomparso (sottratto, volatilizzato, evaso): un prillare di raggi concentrici, "un'impercettibilità talmente flagrante, talmente clamorosa da manifestarsi con un visibilio". Questo libro viene da leggerlo, o guardarlo, come fosse una di quelle malinconiche aureole della perdita: in luogo di un Novecento estinto ma ben lungi dall'essere sostituito. O di una nonna che non c'è più.

Cos'è questo fracasso? Alfabeto e intemperanze di Tiziano Scarpa
Pag. 181 - Edizioni Einaudi (Einaudi Tascabili. Stile Libero n.714)

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