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Intervista a Sara Ventroni



Perché confrontarsi con un testo teatrale dopo una lunga esperienza di poesia? Quale necessità ti ha portato a un confronto così diretto con la struttura drammaturgica?

Mi interessava - ma questo lo dico a posteriori - spostare il centro propulsivo: dalla parola poetica, intesa come parola autoriale, a un diverso tipo di ritmo che nascesse dalle azioni e dall’incastro delle battute. In questo caso specifico non si tratta di teatro in versi né di teatro di prosa ma di una forma scandita sulle battute. Questo mi ha permesso di non escludere piccoli inserti, con rime o pezzi di filastrocca e i tre monologhi conclusivi. Volevo provare a “svolgere” più che ad “avvolgere” il discorso; botta e risposta suscitati dalla sintassi del dialogo, che può anche rivelarsi superficiale, esornativo e ripetitivo. Mi interessava lavorare con alcuni stereotipi: personaggi, linguaggio ed azioni esteriorizzati, senza il filtro d’ autore, senza alcun punto di vista esterno, se non nell’orchestrazione delle scene. Attualmente ci sono molti esempi di teatro in versi (penso, per esempio, al lavoro di Mariangela Gualtieri), anche se non è il caso di Salomè; ci sono poi esempi di teatro non in prosa e non in versi (penso, per esempio, a Sarah Kane) ed è il caso, con le dovute differenze, di Salomè. E’ chiaro che la poesia e il teatro sono parenti di sangue, appartengono alla stessa famiglia. Hanno dei tratti in comune, l’una può far ricorso all’altro. Condividono la messa in scena della voce (metaforica e non). La loro mèta ultima è essere pronunciate. E’ difficile individuare la necessità che si nasconde dietro la scrittura di un’opera, perché si tratta sempre di un intrico di casualità e necessità, di un concorso di cause. Una necessità era abbassare la temperatura della singola parola e accendere energia col susseguirsi di scene e azioni. Un’altra ancora era lavorare sugli stereotipi. Un’altra ancora la devo capire.

Salomé è un personaggio complesso e affascinante, già affrontato e (ri)visitato anche in ambito teatrale da molti artisti (per esempio Wilde). Perché riproporre una figura tanto “famosa”?

Ci sono vantaggi e svantaggi di una scelta simile. Se l’avessi fatto per confrontarmi con quei grandi autori che si sono cimentati nella stessa operazione, non avrei finito nemmeno la prima pagina. Le cosiddette “motivazioni esterne” erano altre. Mi era capitato di parlare di Salomè in un contesto per niente letterario. Erano venute fuori delle cose interessanti perché la storia poteva essere letta in una chiave diversa. Allora si è attivata l’immaginazione, che ha provveduto a fornire altri personaggi e a dare corpo ad una vicenda specifica. Vorrei ricordare che quella di Salomè non è una storia autoriale (come Edipo, Elettra, Amleto): non esiste un testo di riferimento, uno stile, dei versi. Se si va alla fonte, ovvero alla Bibbia, più precisamente ai quattro vangeli (ne parla anche lo storico Giuseppe Flavio, ma solo di passaggio) si può constatare immediatamente che la storia della ragazza è appena accennata. Più spazio invece è dato alla vicenda di Giovanni. La vera storia di Salomè, quella che tutti conoscono e visualizzano nell’immagine di una ragazza che danza o in una testa sanguinante adagiata su un vassoio, è una storia/icona prodotta dalla pittura, dalla letteratura, dalla musica, dal teatro, nel corso dei secoli. E’ una storia che non appartiene ad un autore, eppure è una storia letteraria. Questo perché è una storia della comunità letteraria, e non solo. Così, almeno virtualmente, ogni riscrittura ha lo stesso rapporto con l’originale testo letterario “assente”. Salomè ha lo stesso valore e la stessa funzione di un personaggio del mito, un mito che però non appartiene ad un solo autore. E’ un personaggio che si offre volentieri a versioni aggiornate. Una Salomè ottocentesca non è una Salomè seicentesca. Dal momento che si tratta di una storia nota, è possibile contare sulla possibile complicità con il lettore/spettatore, il quale sa che la storia preesiste ad entrambi, autore e lettore. Questa premessa può essere interpretata come una limitazione o come una libertà. E in effetti è tutte e due le cose. Se un mito si offre all’attenzione vuol dire che dal punto di vista individuale (e sociale, probabilmente) potrebbe esserci un impulso e una necessità a riattraversarlo. Quale impulso, oggi? Non è solo il sado-voyeurismo nazional-popolare, né la mancanza di un ideale più ampio del perseguimento del successo personale. Si tratta anche di altro. Ma non devo essere io a dirlo. Salomè non ha una voce specifica, il suo ritratto è stato messo insieme nei secoli attraverso le interpretazioni. Di sicuro il culmine della mia storia non è la decollazione del Battista, e non è detto che il personaggio più importante sia Salomè.

Il linguaggio di cui si servono i personaggi della tua opera è molto diretto, spesso colloquiale, soprattutto privo di ermetismi. Anche se è evidente una ricerca di ritmo, di “musicalità poetica”, siamo di fronte a una prospettiva espressiva molto diversa rispetto ai tuoi lavori precedenti. Cosa è successo?

Credo che ogni opera porti con sé uno specifico progetto linguistico. Avevo molte perplessità, ma alla fine ha vinto la voglia di sperimentare, che non significa necessariamente scrivere in modo più complicato o sofisticato. Significa andare a vedere, senza sapere a quali risultati si approderà, qual è il linguaggio più aderente e necessario all’effetto che si cerca di produrre. Il linguaggio non è stabilito prima, anche se la tentazione di andare a pescare da soluzioni già sperimentate e collaudate è sempre molto forte. Non sto dicendo, come suggeriva Poe, di partire dalla fine, dall’effetto emotivo che si intende suscitare sul lettore. Sto dicendo che ogni forma chiama un linguaggio e viceversa. Poi bisogna vedere se è un linguaggio interessante, stimolante. Mi interessava attraversare e mescolare lo stereotipo teatrale e quello televisivo. Un grado zero di letterarietà al servizio del ritmo e della trama. Al servizio dei personaggi: per muoversi agilmente e portare avanti il loro progetto, avevano bisogno di aggrapparsi allo stereotipo. Volevo evitare la prosa lirica, volevo anche evitare la griglia dei versi. Non volevo creare dei personaggi intensi, positivi e negativi. Volevo spremerli e ridurli fino all’osso. Volevo che fossero stilizzati, al servizio di emozioni e caratteri evidenti, semplici, eppure fortemente ambigui. Come Jochanaan, per esempio. Non è un personaggio del tutto positivo. E’ un uomo carismatico che forse tiene più ad accrescere la fama che a fare qualcosa di buono per il prossimo. Quando cominciavano a strutturarsi trame e relazioni, quando i caratteri dei personaggi si andavano delineando era chiaro che dovevo limitarmi a dare qualche colpo per evitare cadute sul profondo. Questi personaggi parlano un “linguaggio di funzione” (relativo alla funzione che svolgono) al tempo stesso danno quel ritmo necessario per gonfiare la storia e portarla a conclusione. Chi legge deve essere trascinato nella trama, non nella interiorità dei personaggi. Chi legge si misura con un linguaggio poco denso, un linguaggio che si consuma. Tutte le figure stanno al gioco: sono personaggi-stereotipo e offrono quello che ci si aspetta da loro, ma senza ingenuità, perché sono consapevoli della loro parte. Da questo quadro si staccano Erode e Petra. Erode è toccato dalle parole altrui, mentre gli altri sono impermeabili, portano avanti il loro quadro, studiano le mosse al fine di avere la meglio. Petra è coinvolta e partecipe, ma è anche capace di fare due conti, alla fine di tutta la baraonda. È l’unica che ha un briciolo di consapevolezza e intravede lo schema. Per dare l’idea di questa “meccanicità” mi serviva un linguaggio diretto, poco analitico e poco lirico. Nessuno doveva apparire più di quel che è ma meno di quel che è, in modo che potesse emergere il doppio nascosto.

Tra tutti i personaggi che popolano il tuo libro forse il più sconcertante è Erode, che hai dipinto con tratti davvero inediti, inaspettati. Un uomo insicuro, debole e ingenuo; tutto sommato simpatico. Perché questa scelta?

Erode suscita simpatia perché per lui gli altri esistono. Dalla guardia ad Abila, da Erodiade a Salomè, tutti hanno un ascendete su di lui. Erode è empatico, si modella sugli altri, si lascia cambiare. Dà retta a tutti perché trova tutti motivati e interessanti; trova tutti più interessanti di lui. A dispetto dell’immagine stereotipata che anche il cinema ci ha consegnato, questo Erode è sì un bambino, un uomo incredibilmente infantile, ma è l’unico capace di coinvolgersi. Certo, non è un personaggio saldo, tetragono. Ha la promessa facile. Tutti vogliono una parte di quel che potere che lui detiene, anche se solo formalmente. Ma mentre gli altri personaggi sono usati e a loro volta usano, Erode è l’unico a farsi usare da tutti e a non sapere usare nessuno. E’ fuori dal gioco. Gioca a un gioco tutto suo.

Il tuo percorso poetico ha “risentito” molto dell’influenza di grandi maestri, uno fra tutti Elliot, che hai ampiamente studiato e tradotto. C’è qualcosa di suo anche qui, in SALOME'?

Di T.S. Eliot di sicuro ci sono i versi messi in epigrafe, presi da una delle poesie più belle del Novecento: The Love Song of J. Alfred Prufrock:

In minute there is time
For decisions and revisions which a minute will reverse


Questi versi riassumono bene il legame tra il capriccio degli eventi e la volontà dell’uomo di opporvi delle decisioni che siano definitive, mentre appare chiaro che la loro stabilità dipende – come in un meccanismo o in una partita di scacchi - dalle mosse che fanno gli altri. Ogni scelta, alla fine, appare non solo revocabile ma addirittura smentibile, quando non rovesciabile non suo contrario, in una manciata di secondi. Non so se questo fatto, su un piano politico, sia indice di assoluta mancanza di ideali e di moralità, so solo che qui accade così. Eliot è stato autore di molti testi teatrali, la maggior parte dei quali scritti dopo che sembrava esaurita la grande ispirazione poetica (quella ispirazione che lo aveva portato al capolavoro dei Quattro Quartetti). Non so se qui c’è un riferimento diretto a Eliot drammaturgo, il quale peraltro era uno strenuo difensore del teatro in versi, di sicuro ho nelle orecchie alcune sue affermazioni su dramma e poesia che mi sembrano validi spunti con cui chiudere, non prima di aver precisato che con la parola “dramma” Eliot intendeva la forma teatrale e non il genere tragico.

“Non c’è alcun ‘rapporto’ tra poesia e dramma. Ogni poesia tende al dramma e ogni dramma tende alla poesia” (in Dialogo sulla poesia drammatica, 1928)

“Quello di un grande poeta drammatico è un mondo in cui il creatore è dappertutto presente e nascosto” (in Le tre voci della poesia, 1953)