OTTONIERI NELLO SPAZIO

06/03/2003

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Ciccio:
come è cambiato il tuo immaginario e la tua scrittura nella varie fasi dal dopo '77 a oggi, nel giro di vent'anni, con l'innesto della società dello spettacolo fino alle merci e alla loro dematerializzazione?

Ottonieri
: è abbastanza complicato rispondere a questa domanda, nel senso che quando ho cominciato a scrivere in modo un po' convinto, utilizzavo una scrittura di getto: questo libro qui è totalmente peripatetico, l'ho scritto per strada in taccuini minuscoli che adesso sono depositati presso l'Università di Cassino dove siamo stati io e Aldo Nove un mesetto fa a donare i nostri testi, i nostri manoscritti più o meno giovanili per cui ci sono tutti i testi poetici, gli appunti… Insomma era tutto scritto in librettini piccoli così che erano stati scritti sugli autobus, per strada, quindi è una scrittura molto di getto. C'è però anche un lavoro antecedente paradossalmente anche abbastanza letterario, mentre questo è un libro che ha una suo lato anche abbastanza selvaggio, molto impulsivo, compulsivo, per quanto anche con una serie di influenze abbastanza forti da Lautréamont a Rimbaud. Un linguaggio così strano, così acquatico, così inventato, era scaturito in parte dalla lettura di un frammento poi pubblicato in una stranissima rivistina di Trieste un anno dopo che io ho scritto questo libro; era un frammento riscritto da Joyce in italiano insieme ad un amico triestino che era appunto Lana Livia Turebelda (?) che aveva allora tutto questo linguaggio così arpeizzante e materico.
Poi questo libro, che è stato accolto da Edoardo Sanguineti che mi ha fatto la grazia di introdurre questo mio libro con densa, bella e abbastanza ampia introduzione, in realtà in modo così centrale e subliminale al tempo stesso rappresentava e rispecchiava anche l'ondosità di quelle sottoculture degli anni Settanta e anche questa soggettività acquatica; tanto è vero che il tema dell'acqua è un tema presente fin dall'inizio: l'idea era quella di comporre, attraverso una serie di progetti sparpagliati, una specie di sinfonia del fluido e dei fluidi, dell'acqua in tutta la sua gamma. Ci fu Manganelli che recensì questo primo libro in modo molto denso e importante e parlò appunto di questa acqua materna, dell'idea di questa acqua generativa, acqua putrida, però al tempo stesso ribollente, questa sorta di acqua quasi solidificata, magmatica come anche la lingua stessa che sgorgava magmaticamente, però attraverso una serie di frammenti; un libro fatto come composizione di frammenti, di schizzi, di abbozzi, per cui ha questa consistenza di fluido ma al tempo stesso una frammentarietà molto forte e molto necessaria.
Fu abbastanza casuale che io abbia trovato un editore per questo libro e che abbia trovato soprattutto una persona che mi ha aiutato a pubblicarlo che è stato Edoardo Sanguineti che ne è venuto a conoscenza, l'ha amato molto e insomma me l'ha fatto pubblicare lui. Un libro che è stato, all'interno della Feltrinelli, abbastanza osteggiato da Porta che all'epoca era su altri lidi, aveva fatto una conversione brusca ormai da qualche anno. Io avrei voluto che uscisse anonimo, non perché mio padre era uno scrittore e allora io non volevo uscire con il suo nome, non era questo, ma mi sembrava che il libro fosse molto ancorato, molto materico-fisico, ma al tempo stesso collettivo; mi sembrava che questo libro sgorgasse da una possibile coralità che magari è totalmente mentale, cioè che io riproducevo mentalmente, sentivo mentalmente; istintivamente mi sembrava che fosse, anche se non avrei usato queste termine abusato, "generazionale"; anche se non è stata la generazione del Punk, che, in fondo in Italia è approdato un po' successivamente, però era animata dallo stesso cupio dissolvi, insomma l'anonimia, la scomparsa e allo stesso tempo l'eccesso nella sparizione.
Fra l'altro questo libro nel suo interno ha anche un suo percorso, una sua parabola, inizialmente c'è questa intemperanza anche linguistica e man mano si approda sempre di più ad un discorso fatto di buchi, di mancanze, di sparizioni. Ad un cero punto il testo è scritto addirittura con parole mancanti, con brandelli di frasi, qua e là sulla pagina, che in realtà corrispondono effettivamente a delle frasi che ho tolto successivamente, quindi la sparizione non era prodotta ad arte ma era reale.
In seguito per anni non ho scritto nulla di organico, se si vuole considerare questo un testo organico, cosa che non è, ma è comunque un libro che ha una sua organicità proprio nel senso fisico, come se si fosse costruito da sé, senza un progetto anteriore. Ci fu uno strano libro che uscì all'inizio degli anni Ottanta in cui raccoglievo dei testi in cui lavoravo molto sul piano musicale-sintattico; un romanzo che si chiama La rientrata che è una specie di romanzo porno però tirato ad un livello di sublimità anche linguistica che era anche provocatorio allora: in quegli anni, e questo discorso sarebbe da contestualizzare negli anni Ottanta, comunque capiamo di cosa parliamo, pensavo di produrre una sorte di orizzontalità, un discorso che sintatticamente è vicino e prossimo alla stasi, quindi totalmente all'opposto rispetto alle Memorie di un piccolo ipertrofico, e in effetti sintatticamente mi ricordo che in quegli anni ero molto influenzato dalla lettura di alcune prose di Pizzuto, quindi questa idea di una narrazione che fa a meno dei tempi verbali finiti per produrre una serie di temporalità non progressiva ma stratificata, e questo mi interessava molto. Alcuni frammenti di questa specie di romanzo sono stati rielaborati e sono confluiti in quest'ultimo libro appena uscito che è una raccolta della mia storia in versi, anche se in fondo io ho scritto molto poco in versi. Ho cominciato a scrivere in versi attraverso una pratica di contatti con altre persone con cui ci si frequentava molto tra fine anni Settanta inizio degli anni Ottanta, tra cui Gabriele Frasca, Marcello Frixione, Enzo Durante. Per anni poi ho scritto in modo molto sporadico, spesso testi per occasioni precise, pubblicazioni collettive, ho anche fatto diverse scritture per la radio; c'è un libro che è uscito soltanto nel 2000 in cui ho raccolto molti testi che avevo prodotto per la radiofonia soprattutto nella fine degli anni Ottanta, in cui c'è tutto questo corpus sul supermarket che ho scritto nell'88 ed era stato trasmesso per radio eseguito da degli attori. Devo dire che non sono molto contento della realizzazione, forse era un po' bloccata, erano dei testi abbastanza difficili da eseguire, comunque erano una sorta di sketch di storia del supermercato in cui riutilizzavo un immaginario e un linguaggio fra il pubblicitario e il commerciale. Da questo progetto è scaturito un libro che ha segnato una rinascita, un lavoro più organico, più corposo, visto che per una decina d'anni non ho fatto che pubblicare e scrivere cose un po' saltuariamente, anche se non era un'attività del tutto secondaria. In effetti questo libro è costituito da cornici, quindi da una storia guida che avevo fatto per incastrare questi racconti che io avevo prodotto per la radio e in seguito avevo voluto costruire un progetto più organico e avevo voluto costruire una storia guida. Questo libro ha però avuto una disavventura editoriale: doveva uscire nel '90 perché inizialmente un editore aveva manifestato la sua disponibilità, poi ci sono state ristrutturazioni, la crisi di questo editore e oltretutto questo editore temeva il boomerang che potava suscitare l'uscita di questo libro. Nel frattempo infatti era nato il Gruppo '93 e il rischio era di presentarsi come l'editore ufficiale di questa situazione che è stata abbastanza fallita, nonostante la qualità di molti autori, che sono quelli che conoscete un po' tutti: Lello Voce, Giuseppe Caliceti, Gabriele Frasca, no lui in realtà non era del gruppo, era dell'area. Nonostante abbai avuto subito la disponibilità da parte di Piero Manni di pubblicarlo, poi a quel punto ho voluto pensarci e lavoraci un po' di più, continuare a limarlo, e alla fine il risultato è stato che di nuovo i racconti da cui era nato sono usciti dal libro e adesso è come se fosse una specie di grande cornice di questi racconti che sono stati pubblicati a parte in un altro libro che si chiama L'album crèmisi. Questo libro nasce sull'onda di un progetto sui supermarket nato agli sgoccioli degli anni Ottanta come una sorta di metapensiero di quegli anni, sull'immaginario e sul conformismo che si era imposto in quel decennio ed è diventato un progetto diverso, forse anche più maturo; se lo rivedo adesso però penso che potrei lavorarci ancora di più, migliorarlo, chiarire dei nodi, perché in effetti questo è un libro abbastanza tosto che non concede molto ad una lettura rilassante e rilassata. La storia, che è anche abbastanza ridicolizzata man mano che si fa, è una specie di indagine all'interno del supermercato di una specie di investigatrice che assomiglia molto, anche il nome dell'attore attrice Divine, quello di John Walters, prima che questa fosse parodizzata in modo molto più devastante e deprimente da Platinette.
L'arco della mia produzione fra virgolette commerciale si compie in maniera anche assai diversa con l'Elegia Sanremese perché anche quello è grosso modo alla fine degli anni Ottanta anche se poi non lo avevo mai prodotto fino a che nel '94, Sanguineti, che dirigeva una collanina genovese molto stramba, dove poi in realtà non nacque; l'editore era intelligente ma totalmente inaffidabile e si chiama Pirella, parente del disegnatore. Erano dei libri strani, di grande raffinatezza, molto lavorati ma prodotti solo in fotocopia, quindi di grande qualità ma con una tecnologia povera quindi era un po'ante litteram della libreria on-demand, per cui non c'era bisogno di un magazzino, ma era un libro istant per chi lo desiderasse. Quindi sotto le sollecitazioni di questa collana, che nacque solo con un testo di Sanguineti e poi si chiuse, produssi questa sequenza che è poi il corpus centrale dell'Elegia Sanremese; l'idea era quella di rifare le canzonette sanremesi come compimento di un'idea della lirica italiana, quindi c'è una linea portante che va dal Petrarca o meglio dal petrarchismo fino appunto alla tradizione sanremese [come compimento di questa tradizione o convenzione in realtà (perché le tradizione sono figure, stereotipi)], però corrosa intimamente da una serie di motivi che potevano essere da un lato la lirica sperimentale espressionistica primo ottocentesca italiana fino ad Ossi di seppia: da Rebora, Barbaro, anche Dino Campana, di cui c'è molto; dall'altra parte nell'ombra di Luigi Tenco, che infatti poi appare nel frammento che in realtà è un racconto narrativo che avevo scritto, anche questa volta su commissione, per Il Manifesto, per commentare il Festival di Sanremo, per cui ogni giorno avevo a disposizione trenta righe che poi si sono abbastanza gonfiate nell'edizione definitiva a stampa, nel libro. C'è poi un discorso a parte: La plastica della lingua e poi Contatto. Contatto, di cui ho già detto qualcosa, rappresenta il lavoro che fino adesso era rimasto disorganico e smembrato, lavoro soprattutto in versi ma non solo, vi sono anche molte prose una parte contestualizzata di nuovo negli ani Ottanta; qui la musa sono gli anni Ottanta dark, musicalmente le influenze, anche se sotterranee (perché quelle esplicite sono diverse), sono i Joy Division e i Tuxedomoon, in cui c'è una formalizzazione molto forte e acida, livida e straniata. Vi sono anche riferimenti musicali e rifacimenti di testi musicali abbastanza vari da Pubblic Enemy a Laurie Anderson a Sonic Yough e poi soprattutto ci sono molti testi che appartengono ad un lavoro che avevamo fatto in gruppo con Frasca e gli altri amici: avevamo deciso di riscrivere da capo a fondo, questo nella fine degli anni Ottanta, il disco forse più bello della nuova formazione dei King Crimson cioè Bitt.

Qualcuno
: La Vasca.

Qualcun'altro
: Britt non Britti!!!

Ottonieri
: Si quello sì era un opuscolo che doveva uscire nell'84 che si chiamava proprio Bitt. Se da un lato avevamo non Alex Britti ma Albano e Romina sì…
Poi La plastica della lingua con testi, autori e correnti contemporanee come il Pulp, ma non solo; mi venne l'idea che di tutto questo paesaggio smembrato, fatto in fondo di fili sospesi, si potesse creare l'idea di un affresco, per quanto provvisorio. Era stata una ipotesi, quasi di un'invenzione, nel senso doppio di ritrovamento e di ipotesi, di postulazione, di un paesaggio letterario nella consapevolezza che aveva la sua necessità e la sua forza proprio nel fatto della sua autoconsapevolezza di essere qualcosa in transito, in via di dissolvimento nell'atto stesso in cui va a costituirsi. Quindi era stata una rilettura negli anni Novanta alla luce di questa possibilità.
Ora forse ho parlato un po' troppo, chiedetemi voi se volete.

Ponte
: Che taglia hai di scarpe?

Ottonieri
: 42-43: ho un piede che è stato maciullato in un incidente in moto, quindi ne ho uno più lungo dell'altro, però di poco.

Pan
: Potremmo tentare, premesso che l'autore si può sempre negare a questo tipo di cose, una specie di glossario, anche per coloro che non hanno potuto leggere tutti i testi, cercando allo stesso tempo di tirare fuori alcune delle cose comuni di quella che si chiama l'opera, partendo dall'inizio, dal concetto dell'ipertrofico. La questione dell'ipertrofia o dell'ipertrofismo, cioè di che genere è volendo caratterizzarla (è una ipertrofia visiva?) anche poi leggendo i libri successivi… questo linguaggio che si moltiplica e si ripete; questo anche secondo me trova collegamento con la merce come l'ipertrofia reale della società così come si è sviluppata che l'autore vede, vide, guarda, e quindi poi le due cose trovano, anche a livello del linguaggio, una un'unita. All'inizio forse non c'era questo carattere della merce, c'era un linguaggio come hai detto prima, peripatetico, poi così ispirato… cosa ci puoi dire?

Ottonieri
: È vero, intanto partendo da questo titolo che è nato presto, nel senso che è una, fra le varie letture, più o meno adolescenziali, cioè Les chansonnes du petit ipertrofic che in realtà non credo sia stato decisivo dal punto di vista tematico, più che altro lo è stato dal punto di vista subliminale. Questo testo che parla di un bambino, è una specie di canzone molto infantile filastroccata e filastrocchesca che quindi non a caso traduco più o meno nello stesso linguaggio del libro, in cui questo bambino ipertrofico, con questa sorta di eccesso di organicità, parla alla madre morta in tutta questa filastrocca molto carina con tutti questi salterelli tiranlà e lui dice di quando la raggiungerà; dunque c'è questa specie di viluppo, cioè da un lato l'idea di una testualità quasi fetale cioè pre o proto linguistica, dall'altra parte l'idea del rientro in un stato inorganico. Effettivamente il testo, sia quello di Laforgue sia questo qui, si situa in questa sospensione, cioè nell'immediatezza di questa nascita linguaggio e nella prossimità invece di questa sorta di rientro in una dimensione che non è necessariamente la morte, ma una dimensioni in cui il linguaggio comincia a cristallizzarsi, comincia a sentirsi non come qualcosa in cui si può imprimere una sorta di creatività individuale, ma diventa quello per cui è nato, cioè una sorta di struttura, di servizio di comunicazione pura, informativa fra degli esseri umani. All'interno del paesaggio delle merci forse rientra questa sorta di eccesso, di struttura eccessiva, questa ipertrofia che è diventata una nevrosi; in questo senso il paesaggio, che è diventato quello di oggetti, di lingue e magari di ritornelli e musichette sceme, si è innestato profondamente a livello psichico proprio come nevrosi individuale e al tempo stesso collettiva. Individuale nel senso che in cui Marc Augé parla della solitudine della contemporaneità che passa attraverso questi luoghi di scambio in cui il soggetto, in una dimensione in cui è a contatto con il paesaggio comune a tutti, alla fine finisce con il singolarizzarsi, con il non poter condividere la sua esperienza e vive in realtà questa uniformità sociale soprattutto a livello individuale e di nevrosi. Si chiarisce così anche il senso di questa ipertrofia che è apparentabile ad una dimensione che letterariamente si potrebbe dire espressionistica, l'espressionismo non solo di lingue ma di cose, di affastellamenti, di oggetti, di elencazioni.

Ciccio
: Allargando il panorama ad altri autori italiani c'è una specie di apparentamento, di convergenza tematica da una scrittura materiale ad una scrittura fatta della materia da cui prende spunto? Tu dove vedi la tematica della merce o quella dell'ipertrofia della merce in una dimensione in cui non si è dematerializzata ma è diventata gli affetti, i rapporti sentimentali? La sensazione che ho avuto è che c'è questa dimensione in cui tutto il magma dei recenti libri si dissolve in un sentimento e a parte te, anche in altri autori, ad esempio Aldo Nove o anche altri…

Ottonieri
: In questo senso c'è un testo che appare ne L'album crèmisi, che è primo testo dell'Album crèmisi e il primo in assoluto che ho scritto su questo tema delle merci; è estremamente sentimentale: si tratta di un bambino che parla in prima persona, di un soggetto chiaramente infantile perso nel supermercato (quindi di nuovo un piccolo ipertrofico), che attraversa questa sorta di supermercato fantastico metà supermercato, metà paesaggio, metà installazione o accumulazione di installazioni, con questo grande senso di smarrimento e al tempo stesso di fascinazione, nausea e fascinazione di questa dimensione. Questo, anche se in modo più disincantato (in parte, ma non sempre), è una costante, ritorna abbastanza nella narrativa degli anni Novanta. Estasi e consapevolezza del pecoreccio il tutto incastrato in una dimensione che non è pacificata. Riconoscere una coesistenza di questo genere significa riconoscere anche che sono contraddizioni e sentimenti che fanno parte di noi, così come la canzonetta sanremese.

Ciccio
: Io ricordo Bono in un'intervista che per abbassare il livello di moralismo di quelli che gli chiedevano come si trova a vivere in una società invasa dalle merci, dalla pubblicità, dalle multinazionali, faceva notare che anche lui risponde che gli ributta ma che non potrebbe fare a meno, quando si trova in autostrada, di vederla piena di insegne luminose o cose del genere.

Ottonieri
: Infatti, anche questa è una forma di nevrosi. Da un lato l'assuefazione e la fascinazione, la nausea e l'inevitabilità di questo peregrinare in questo mondo in cui c'è meno la fascinazione e la letterarizzazione e più l'adesione nevrotica in questo paesaggio.

Ciccio
: Ad esempio quando siamo andati alla presentazione dell'ultimo libro di Labranca, Neoproletario, l'impressione diffusa era di una specie di scarto generazionale nel suo rapporto con la merce e con il mondo, nonostante vi fosse un'immersione c'era anche un distacco nel trattarla, non dico moralistico però…, alla fine riducendo tutto a Platinette, era come stare a sentirlo tutto il tempo e poi avere l'impressione che non dicesse nulla di nuovo per noi. Quel mondo che lui sviluppa e analizza lo vede anche in maniera esterna, per noi invece non esiste questa dimensione, perché noi ci siamo dentro, noi lo siamo.

Ottonieri
: Io credo che anche lui sia così, anche se prevale una vena didascalica, una vena dimostrativa, ma in fondo è anche molto televisivo da questo punto di vista, non a caso ha poi fatto anche televisione.

Ciccio
: deve aver curato un dopofestival, in qualche edizione…

Ottonieri
: ma, mi pare di sì…

Pan
: Potremmo parlare del dopofestival di Sgarbi, che è bellissimo.

Ottonieri
: Ah, che c'è un dopofestival alternativo?.

Pan
: Si, su La7.

Ottonieri
: Allora non si è rassegnato.

Pan
: Insomma, lui ha letto per un quarto d'ora di orologio le Elegie Duinesi di Rilke. È stato meraviglioso, non so in quanti eravamo a guardarlo ma comunque.

Ottonieri
: E perché le ha lette?

Pan
: Ma perché ne aveva voglia. In questo contesto assolutamente non comprensibile della sua trasmissione.

Ottonieri
: Stamattina però ho avuto la soddisfazione di vedere un bigliettaio sul treno che, timbrando i biglietti, chiedeva:< Ha visto il Festival di Sanremo?>. E l'altro che rispondeva < E' assolutamente abominevole!>.

Ponte
: Io volevo cercare di capire da chi erano state teorizzate le Taz creative, cioè queste zone temporaneamente autonome, di cui ho letto su L'apostrofo.

Ottonieri
: Ma letterariamente è una metafora e poi è stato questo teorico, il cui pseudonimo è Hakim Bey, che è uscito da Shake, perché quello di Castelvecchi era un apocrifo. Era un libro sulla filosofia dei centri sociali…

Pan
: Taz starebbe per Zone Autonome Temporanee.

Ottonieri
: Anche Lello Voce nella sua rubrica del lunedì su L'Unità, anche se parla anche di politica ufficiale, è stata intitolata Taz.

Ciccio
: Su L'apostrofo ho visto una parte su la gnosi, di cui Luci è per noi il portatore…

Ponte
: …sano.

Ciccio
: … sano, dello gnosticismo punk che pervade ormai il nostro lavoro. In quali dimensioni parli di teosofia e mistero?

Ottonieri
: Beh, bella storia. Devo innanzitutto dire che la domanda dell'intervistatore è stata suscitata dal fatto che lui ha studiato, letto molto e ha dunque subito anche l'influenza e il fascino di Gabriele Frasca che è uno che studia lo gnosticismo in modo abbastanza organico e integrale. Invece, in Crema acida, che è questo romanzo abbastanza metaromanzo o non-romanzo, ad un certo punto ci sono una serie di finali alternativi anche molto macchinosi e a incastro, in cui spuntano fuori alcune di queste teoria gnostiche; in realtà è un po'un gioco: si ripercorrono, si parafrasano, si parodiano, ma fino ad un certo punto, alcune teorie gnostiche tra cui quella più centrale quella valentiniana con questa idea dei racconti, tant'è vero che i tre del direttivo di questa catena di supermercati divengono delle deità negative gnostiche. In realtà si può dire anche questo, chevi sono sia dei motivi personali, subliminali, profondi e autobiografici, nel senso che mio padre ha scritto un libro importante che si chiama il Quinto Evangelio, io ne ho fatto, se vogliamo, una sorta di paradossale e affettuosa dialettica con questo libro e questi temi che ha affrontato mio padre in modo importante. Dall'altra parte in effetti è uno dei pochi esempi di quel tipo di letteratura che nasce dallo spirito di quella di Thomas Phinchon, anche se uscito prima che i suoi libri fossero scritti e che lui fosse portato al centro del sistema (anche se non è mai penetrato a fondo in Italia), che è una sorta di umor nero del complotto. La teoria del complotto è fortemente animata da linee gnostiche di pensiero, quindi potremmo rifarci a questo ipergenere letterario, a cui posso aver fatto riferimento in questo libro, e poi credo che potrei anche leggere quello che ho scritto qui: l'interpretazione gnostica, una delle sette o otto interpretazioni di Crema acida che vengono date al plot è semiseria e in fondo delegittimata al pari delle altre; al tempo stesso è una chiave misteriosofica della realtà smateriante e ancora troppo umana delle merci, cioè secondo la lettera di Crema acida della guazza delle merci però soprattutto la distopia, l'utopia negativa, disegnata, indicata dalle cosmologie gnostiche, con la loro trappola metafisica, che ha il suo centro nella teoria del mondo come creazione imperfetta si realizza soprattutto tra gli ambienti dei grandi centri commerciali e forse ancor più nell'ascetismo nauseante delle corsie di un hard discout oltre che, è ovvio, nel palinsesto della tv cafona. Dunque l'idea è che, molto sommariamente, questa sorta di teofania negativa in realtà si realizzasse in modo organico, in modo compiuto proprio all'interno del sistema di cui noi sentimentalmente o nevroticamente ci troviamo e in cui agiamo.

Ciccio
: Per allargare il discorso ad una sovrastruttura che è l'avanguardia, per poi tornare sul discorso della lingua, in che rapporto secondo te stanno una parte degli ultimi dieci-quindici anni della letteratura italiana con una dimensione di avanguardia o con la sua negazione (la no-avanguardia o la stop avanguardia), una dimensione insomma più critica? Ad esempio nel programma su Porta, Cortellessa lo presentava come il nuovo esponente interessante di una linea che in Italia…

Pan
:…non c'è.

Ottonieri
: Si, anche in quarta di copertina di questo libro parlavo del concetto di no-avanguardia nel senso in cui si parlava negli anni Settanta di no-wave più ancora che di new wave: una sorta di interruzione e di discontinuità; d'altra parte le avanguardie sono sempre nate nel segno della discontinuità e della cesura con le tradizioni passate, anche se magari con una interrogazione delle tradizioni e non solo delle tradizioni del nuovo. Però direi che negli anni successivi ai Settanta, e poi soprattutto, visto che parliamo di un fenomeno che si è imposto in modo più massiccio nell'editoria, negli anni Novanta (visto che le esperienze editoriali degli anni Ottanta sono state più sporadiche e solitarie) un fattore di novità è stato che gli scrittori hanno cominciato a interagire, a essere in contatto gli uni con gli altri e a creare dei piccoli movimenti, anche semplicemente dei piccoli laboratori senza nessuna pretenzione, spesso semplicemente un gruppo di amici, come per esempio, senza parlare dei pulp (che sono stati innanzitutto un'invenzione dei critici o degli editori e poi successivamente alcuni di questi scrittori hanno stabilito dei legami solidi tra di loro: per esempio i tre che hanno scritto Nelle galassie oggi come oggi erano quasi vicini di casa, quindi questa è un'idea che è nata più o meno al bar), il Gruppo 93 è stata un'esperienza fatta a tavolino e forse per questo fallimentare; ad un certo punto infatti si è deciso, non mi ricordo nemmeno più chi l'abbia deciso, di creare questo movimento. In realtà non era sbagliato nel senso che il bilancio degli incontri alla fin fine è stato abbastanza positivo, è stata infatti un'occasione di crescita e di maturazione, di confronto e amicizia tra le persone (al di la di alcuni conflitti stupidi che vi sono stati). Però l'idea un po' negativa è stata di intitolarlo Gruppo e in secondo luogo di intitolarlo 93, che lo metteva immediatamente in una condizione di epigonismo rispetto al precedente. In realtà si chiamava così anche perché ne dovevano fare parte anche i vecchi del Gruppo 63, cosa che invece, una volta varata questa etichetta infelice, loro ci hanno più o meno mollato al nostro destino con questo marchio infamante di epigonalità che continua ad esserci rinfacciato. Poi ci sono state una serie di azioni strategicamente un po' stupide, anche da parte di alcuni critici che facevano parte di questo giro. Per il resto però credo che anche negli anni Settanta, a parte alcune frange nel campo della poesia come quelle di Pignotti e di Sive (?) che continuavano un certo discorso del Gruppo 63, tutto nasceva all'insegna della casualità, così come corpi che cozzano e si incontrano producendo delle scintille e dei movimenti subitanei che a volte si vogliono anche nominare come dei movimenti, per esempio pensiamo agli anni Novanta a questa esperienza subito abortita e non nata che si doveva chiamare Nevroromanticismo, di cui si era fatto promotore anche Aldo Nove. Non a caso poi non è nata perché non poteva produrre nemmeno un manifesto o posizioni comuni, si trattava semplicemente di una serie di nodi impercettibili che univano, più nevrotici, più nervali, quasi neurali, per collegarlo ad una serie di esperienze di persone e modi di sentire, più che una sorta di dover essere, di prefigurazione di una letteratura a venire.

Dagli anni Settanta in poi, anche se forse già negli anni Sessanta (anche se lo stereotipo ci dice che non è così), uno dei temi fondamentali del dibattito critico era la crisi dell'intellettuale, che diventa quasi defunto come immagine di un portatore di verità e di posizioni che invece vengono sempre più affidate a figure specializzate, a figure tecniche del sapere, per cui anche in questo quadro, anche per quanto riguarda gli scrittori che immaginano l'idea di letteratura come ricerca, decade l'idea della prefigurazione, per cui inevitabilmente tutto finisce per affidarsi a delle occasioni, a degli incontri, a dei casi, a delle reti neurali che si stabiliscono, a onde di sentire, cosa che poi di fondo è anche un boomerang, nel senso che si è prodotto anche uno stereotipo del cannibalismo, che è stata una lettura anche molto superficiale di quella generazione, molto scandalistica, pubblicistica e televisiva del fenomeno, quindi immediatamente normalizzante e cannibalizzante. Però non si è saputo strutturale, per una difficoltà endemica e storica…

Ciccio
: Può dipendere questo, come ha scritto Giulio Ferroni, dall'effetto Alcaselzer della letteratura come avanguardia realizzata ?

Ottonieri
: Questa è stato più che di Ferroni, un'idea di Enzensberger e in realtà io scrissi una cosa assieme a Rino Genovesi e Carla Benedetti in cui parlavamo di questo. Comunque è vero che si è diffuso questa sorta di stile medio, anche perché la letteratura e i letterati incidono sempre di meno. Anche tentativi come quelli fatti un anno e mezzo fa nel convegno Scrivere sul fronte occidentale denotano l'impotenza dell'intellettuale a incidere e a reagire fuori della propria retorica con la realtà che fluisce. Sarebbe interessante uno studio comparato anche fuori dall'Italia di quello che è successo ai letterati in quel momento: c'è stato il caso paradossale di Baricco che è ritornato alla storia, oppure il testo molto bello di Moresco ma allo stesso tempo assolutamente inaccettabile perché è praticamente un inno alla guerra, alla necessità della guerra. All'interno di quel libro Scrivere sul fronte occidentale, ci sono poi una serie di interventi che menano il can per l'aia in modo imbarazzante.

Zeno
: Io volevo fare una domanda, ritornando al linguaggio, e in particolare alla poesia, leggendo in Plastica una domanda che poni in corsivo dici Di che cosa parliamo quando parliamo di verso? a un certo punto rispondi Un verso per essere veramente un verso deve essere menzognero e quasi infido la sua leggibilità è segno del suo fallimento. Mi interessava appunto questo aspetto criptico, quale sia effettivamente il significato del verso e la sua forma.

Ottonieri
: Lì volevo dire semplicemente che il linguaggio della poesia è molto stratificato, nel senso che se vogliamo parlare direttamente, se vogliamo utilizzare per comunicare nel modo meno ambiguo possibile una informazione, la poesia non è il mezzo più adatto. Ricordo che mentre scrivevo il mio primo libro seguivo un corso all'università con un grande docente e traduttore di Rimbaud che era Ivos Margoni tenuto nel 77-78 su Una stagione all'inferno; in particolare per me fu molto importante un libro di Empson che ci fece leggere, Sette tipi di ambiguità; in realtà è un libro sui sonetti di Shakespeare in cui dimostra punto per punto come la poesia, in particolare quella shakespeariana al massimo grado, si regga sul principio delle ambivalenze, di una verità che si fa strada sempre in maniera indiretta, in maniera infida e ambigua e stratificata, sempre portando dentro di sé una comunicazione che magari non aveva previsto, anche nel caso forse della poesia più trasparente, quando questa però è poesia, perché qua si apre un altro ordine di discorso che sarebbe difficile da affrontare adesso.

Ciccio
: Prima parlavi di Europa: noi in generale non ne abbiamo una conoscenza effettiva. Quali apparentamenti possono esserci, anche se lontani, con il periodo della Plastica della lingua, se esiste qualcosa. A Ricercare si parlava di questi nuovi Pynchon con quarant'anni di ritardo in Italia…

Ottonieri
: In realtà questa è una bufala assoluta perché il caso Pynchon-Pincio è piuttosto un altro segnale della scarsa informazione e lettura che si è fatta di Thomas Pinchon. Per il primo libro, Tommaso Pincio aveva deciso di chiamarsi così facendo un lavoro al quadrato (molto concettualista) con questo feticcio di Thomas Pynchon, ma dal secondo libro in poi fa un lavoro molto diverso, quasi agli antipodi di Pynchon: lui è un autore di una cristallinità quasi calviniana, mentre Thomas Pynchon è quasi un ipergadda, in termini a noi forse più noti. C'è una totale o quasi ignoranza, per tutti noi credo, nel confronto di quello che accade in altri Paesi dell'Europa, sappiamo soltanto sporadicamente che esistono dei Russi che sono interessanti e che arrivano ogni tanto tradotti. Sono cominciati ad arrivare soprattutto testi cosiddetti postmoderni nel senso in cui se può parlare di Pynchon ma arrivando a Wallace, a Franzen…, dalla fine degli anni Novanta in poi, subito dopo il primo cannibale insomma. Rispetto a quegli autori ci possono essere dei paralleli con autori a noi noti, anche se magari un po' causali, nel senso che comunque gli autori americani sono mediamente più maturi, più radicali, più densi, tranne che in rarissimi casi. Quando uscì Scarpa pensai subito che era già uscito in Italia (ma da poco e tradotto a livelli non proprio massimi da Frassinelli) Mark Leyner, che è stato uno di quelli a cui si potrebbe più addire la qualifica di AvantPop, nel senso che lui unisce dei moduli più o meno noti alle avanguardie storiche ad un immaginario abbastanza scanzonato, leggero, commerciale. All'epoca avevo già scritto Crema acida ed avevo trovato una possibile parentela spirituale con un autore del genere. Un altro autore di spessore notevolissimo è Foster Wallace, che ha scritto anche Infinite Jest. Per esempio quest'anno a Ricercare è arrivato pure qualche tedesco che faceva delle cose interessanti, questo turco di lingua tedesca scriveva queste cose abbastanza apparentabili… Quello che dicevo prima pensando al parallelo tra Leyner e Scarpa è anche per l'orizzonte e il mercato diverso che si ha di fronte, visto che nel mercato di lingua inglese, anche se sei di nicchia, hai potenzialmente qualche centinaio di migliaia di copie che puoi vendere, in Italia è diverso. Però la sensazione che ebbi subito col primo libro di Scarpa, che poi in parte è stata rivista, insomma è comunque un autore che amo molto, è che lui non avesse mai voluto osare più di tanto proprio perché c'è questo spettro della nicchia che ti confina fuori dal mercato e anche dalle possibilità di comunicare e che è un grosso impedimento. È difficile che un autore italiano decida veramente di essere radicale, perché la radicalità, che può essere anche godibile (non escludo la godibilità, come nel caso di Mark Leyner, di Foster Wallace), è come se comunque tagliasse fuori dal 98 % delle possibili mediazioni editoriali: se poi uno non riesce a pubblicare in fondo è come se non esistesse. Io francamente me ne sono sempre fregato, forse perché ho avuto un inizio molto fortunato, diciamo al di là delle mie più rosee aspettative, per cui in fondo non ho mai scritto pensando a mediare più di tanto, poi ho pubblicato raramente con editori molto grandi, però diciamo che tutto sommato un minimo… forse se non avessi fatto il primo libro, se non fossi uscito così, magari sarebbe stato molto diverso anche per me.

Scudo
: Lei definisce, e concordo, il dialetto molto meno malleabile rispetto alla lingua, anche perché ha dei limiti nell'assorbire neologismi. Volevo chiederle se lei ha mi provato a giocare con il dialetto, so che lei ha vissuto nel napoletano, non so se è stato a contatto con dialetti…

Ottonieri
: È una condizione sempre un po' strana quella che ho vissuto con i linguaggi locali, nel senso che i miei non erano di Napoli, ma venivano dall'Abruzzo, e si erano trasferiti a Napoli diversi anni prima che io nascessi perché mio padre insegnava lì; egli fra l'altro aveva fatto degli studi, poi era stato un po' dovunque, in Francia, aveva studiato alla Normale di Pisa,… per cui aveva perso totalmente qualsiasi accento e aveva quindi un accento purissimo, quasi senza inflessioni, per cui crebbi in questa dimensione molto moderatamente locale sul piano della famiglia, in una dimensione in cui invece la lingua era estremamente presente in tutte le sue sfumature anche arcaiche, com'è a Napoli; il risultato è che fino ad una certa età io non capivo una parola di napoletano, e venivo anzi sgridato da mia madre se prendevo un po' di accento. Però ho sempre avuto invece molta passione anche mimetica rispetto ai dialetti, alle parlate locali, in particolare ricordo nella mia infanzia, quando c'era un solo canale televisivo, il programma che amavo di più era il teatro goldoniano, il teatro delle maschere, la commedia dell'arte che passava molto, soprattutto nel periodo di carnevale, e infatti devo dire che una delle parlate che stranamente hanno preso corpo nel primo mio libro è stata anche un po' una specie di reinvenzione di questo linguaggio, però con una serie di inflessioni anche dialettali, ma non univocamente: non c'è un'adesione ad un dialetto integrale, ad un sistema, cosa che io ritengo negativa in ogni caso, proprio perché generalmente decidere di privilegiare una parlata, poi spesso totalmente mitica, è una scelta molto settoriale; penso ad esempio a Franco Lo che scrive in un dialetto che in fondo non gli appartiene. In altri casi per esempio ho scritto un testo che è andato poi per radio che era una specie di dialogo un po' alla maniera dell'Aretino tra due grosse streghe centro-meridionali, in questa parlata che in realtà sicuramente era molto riconoscibile, incastrata tra Lazio, Marche, Abruzzo e Campania (una specie di iperdialetto centro-meridionale), però assorbiva anche molte parole e inflessioni di altre parlate e in effetti uno dei tratti più singolari di questo scritto è che la stessa parola, anche a livello grafico, non si presentava mai sotto la stessa forma, ma c'era una continua metamorfosi, anche quando le parole teoricamente possono essere sentite come appartenenti ad un sistema linguistico molto preciso; questo è un po' quello che accade nel Piccolo ipertrofico, dove però il sistema è complicato anche dal fatto che c'è una ripresa di linguaggio letterario abbastanza arcaico, anche l'italiano delle origini. In seguito ho abbastanza temprato questa foga linguistica a partire soprattutto da Crema acida; forse l'ultimo libro in cui riappare questa dimensione iperdialettale sono le schegge sul supermarket, dove invece ci sono molti elementi dialettali.

Ponte
: Ricollegandoci a questo discorso, come

Sparajurij
anche noi siamo abituati a mescolare il linguaggio per vari motivi e per vari fini, quindi la domanda è se la mescolanza e la simultaneità linguistica possono esistere all'interno di una sfida (perché secondo noi può essere anche una sfida quella di mischiare il linguaggio) sposata però alla leggerezza, o si tratta di un'utopia pura, sia per motivi tecnici… perché la leggerezza è legata anche al discorso tecnico come mezzo di comunicazione della letteratura stessa.

Ottonieri
: Io penso di si, anche se dipende da cosa si intende per leggerezza. Io penso che comunque fare un lavoro di questo genere è comunque un gioco con la lingua per provarsi, sperimentarsi, trasportarsi sempre in dimensioni ignote; quindi non c'è la dimensione dell'esercizio come una formula da applicare per dimostrarne magari la veridicità, ma è proprio un giocare in una zona che ancora si sta formando. Se però per leggerezza intendiamo invece una dimensione giocata a livello di gruppo, la risposta credo sia ancora sì, ma a quel punto è necessario trovare delle regole, per cui vi è un altro senso di gioco e di leggerezza.

Ciccio
: cosa pensi della poesia di Aldo Nove, sulla sua dimensione poetica. In qualche modo lui riesce ad essere AvantPop con una spontaneità che dà leggerezza e allo stesso tempo una leggibilità diffusa. Il fatto stesso che lui pubblichi per Einaudi e non per una casa editrice più piccola è perché è possibile per tutti leggerlo e riceverne qualcosa, un po' come i Simpson: puoi vederlo con gli occhi di un bambino, puoi vederlo come uno studente di liceo, insomma la stratificazione della lettura a vari livelli, tra cui anche una molto semplice ed immediata.

Ottonieri
: Sì, io penso che Aldo Nove sia uno dei pochi casi in cui vi sia una leggerezza, che però coincide con l'intensità e che non cede. Lui riesce ad essere se stesso e coerente con la sua storia e le sue passioni e al tempo stesso riusciamo ad avere questa leggerezza anche di fruizione densa e al tempo stesso godibile. La caratteristica di Aldo Nove è che tutto ciò avviene senza sforzo, in altri autori questo sforzo di essere comunicativi e simpatici sotto sotto si sente. Forse proprio perché Aldo Nove anche in quei casi in cui cede anche ad una certa facilità, ci sono anche delle sue prose di Superwoobinda e ad alcune pagine di Puerto Plata Market, che non sempre sono al livello, francamente, credo che la cosa fondamentale che si può apprezzare è che non cede alla necessità. Però appunto lui è un caso abbastanza particolare, d'altra parte si deve anche dire che lui inizialmente Woobinda non lo voleva pubblicare nessuno, poi ad un certo punto, lui mi ha spiegato questa cosa, che non sapevo, quando pare che si stesso smuovendo qualcosa all'Einaudi, dopo tante perplessità Castelvecchi (che aveva questo libro tra le mani ma non aveva nessuna intenzione di farlo) e soprattutto Paolo Repetti, per una motivazione anche personale (perché aveva soffiato la moglie…, cose di questo genere) in fretta e furia pare gli abbia fatto trovare il libro in bozza. Io lo avevo letto un anno prima, prima che arrivasse a Ricercare e già era un libro che mi sembrava importante, però era uno di quei libri… Cercavamo dei nomi da fare venire a Ricercare, io e Nanni Balestrini ne eravamo molto convinti, altri di meno e comunque sembrava uno di quei prodotti che magari non sarebbero mai approdati ad una grande editoria; in effetti è successo che il libro da Castelvecchi era andato abbastanza bene, però indubbiamente bisogna dire che in quegli anni si erano mosse una serie di cose, era uscito per esempio Brizzi, c'era tutta un'attenzione…

Ciccio
: … era uscita anche la Santacroce, Scarpa…

Ottonieri
: sì, si era creato un caso editoriale e giornalistico attorno a questi nomi e il merito di tutta questa situazione è stato quello di promuovere dei lavori importanti come quello di Aldo Nove, al di là dei grandi demeriti che sono stati anche quello di semplificarlo e di rendere questi cosiddetti Cannibali un fenomeno al confine col pittoresco. Comunquesia sono sempre stati molto rifiutati e osteggiati dalla cultura ufficiale italiana; mi ricordo che è stato un caso pesante proprio perché è capitato pochi mesi prima che uscisse la collana diretta da Aldo Nove degli Inversi Bombiani, in cui anche il mio libro, infatti c'è stata tutta questa coda di polemiche che si è trascinata anche nella storia recensoria di questi libri e credo che sia stata aperta anche in modo nient'affatto stupido da un giovane giornalista (che non so se continui a scrivere oppure no), un po' scolastica ma intelligente. Poi ci sono stati anche una serie di interventi isterici e senza nessun fondamento.

Ciccio
: magari leggiamo qualcosa…

Ottonieri
: …allora, leggo giusto una cosa. Visto che abbiamo parlato di Nevroromanticismo leggo questo testo che si chiama Luci sull'asfalto (anche se non è uno di quelli a cui sono più legato) perché era pubblicato proprio in questo album di Garbo a cui doveva far seguito anche un libro che poi abortì.

[Testo disponibile qui]

Queste sezioni sono concepite come una serie di scene che si chiamano in realtà Insonnia, sono tre sezioni unite una all'altra come se fossero una serie di scene di possibili sfondi o fondali per un film di cui non si enuncia comunque la vicenda. Un altro è questo che è lo sviluppo di un tema che si chiama Screenplay, vapore, cinque variazioni sul tema di Amore residente che è lo sviluppo di un piccolo testo che compariva in Elegia Sanremese.

[Testo non disponibile]

Potrei leggere un testo in prosa, forse, leggo una cosa breve, così poi possiamo concludere. Questo è una coda di Amore residente, che è sempre una sezione di Elegia Sanremese. Anche questo è basato su un motivo, una canzonetta che girava un paio di anni fa in francese.

[Testo non disponibile]

sbobined by @gnese

+ /h. 22/: presentation of Contatto Cronopio_2002, pj set by Nero Luci & Tom al Circolo Arci Fuoriluogo/Cso Brescia 14


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